venerdì 21 dicembre 2018

Luce dei miei occhi - Top 20 dei film distribuiti in Italia nel 2018


#1. Il filo nascosto - Paul Thomas Anderson


 
#2. Hereditary - Le radici del male - Ari Aster


 
#3. Ready Player One - Steven Spielberg


#4. Un affare di famiglia - Hirokazu Kore'eda


 #5. The Other Side of the Wind - Orson Welles


#6. Loro - Paolo Sorrentino


 #7. Dogman - Matteo Garrone


 #8. In guerra - Stéphane Brizé


 #9. La donna dello scrittore - Christian Petzold


 #10. Roma - Alfonso Cuarón

#11. Lazzaro felice - Alice Rohrwacher
#12. Tre manifesti a Ebbing, Missouri - Martin McDonagh
#13. BlacKkKlansman - Spike Lee
#14. Ghost Stories - Jeremy Dyson e Andy Nyman
#15. Un sogno chiamato Florida - Sean Baker
#16. The Ballad of Buster Scruggs - Ethan e Joel Coen
#17. Annihilation - Alex Garland
#18. First Man - Il primo uomo - Damien Chazelle
#19. The Disaster Artist - James Franco
#20. Avengers: Infinity War - Anthony e Joe Russo

mercoledì 10 ottobre 2018

Leggere le immagini #24 - The Weird and the Eerie


"The Weird and the Eerie è l'ultimo libro pubblicato in vita da Mark Fisher, scrittore e critico culturale inglese che anche nel nostro paese sta ora raccogliendo grande interesse. Nel ricordare l'amico, Simon Reynolds ha scritto: «Costruendo, con incomparabile rigore ed eloquenza, un ponte tra estetica e politica, critica e attivismo, Fisher costituiva il modello esemplare di intellettuale impegnato [...] un "John Berger post rave", potremmo dire». Quest'ultima definizione consente anche di inquadrare The Weird and the Eerie, in cui s'indagano - tra letteratura, musica e cinema - due forme del sentire e del narrare che non hanno una perfetta corrispondenza nella nostra lingua. Solo approssimativamente, infatti, il weird può essere reso con «strano» e l'eerie con «inquietante». Fisher segue e spiega queste due categorie attraverso le arti e le epoche: il weird si rivela così nei racconti di H.P. Lovecraft, nelle canzoni dei Fall, nei romanzi di Philip K. Dick e nei film di David Lynch, mentre feerie si manifesta nell'opera di scrittori, musicisti e registi come Margaret Atwood, Brian Eno, Stanley Kubrick e Christopher Nolan. «Il fascino di weird e eerie non è sintetizzabile nell'idea che "ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa". Ha piuttosto a che vedere con l'attrazione per l'esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell'esperienza comune», scrive l'autore. In questo libro, il reale si apre dunque all'ignoto, all'incubo e all'incanto".

mercoledì 3 ottobre 2018

Un mappamondo a Natale



Non è facile dare una forza lineare a un soggetto come quello di L'assassinat du Père Noël. Pieno zeppo com’è di personaggi (è praticamente un film corale) e piccolissimi dettagli - più o meno importanti - che spuntano ogni secondo dietro l’angolo, c’è veramente il pericolo di disperdere tutta quella forza narrativa nel nulla. Christian-Jacque e Charles Spaak sono però molto astuti, sanno come dare ritmo a quel flusso di intrecci tra poliziesco e commedia e aprono grandi spiragli per far sì che alla fine ogni cosa torni morbidamente al suo posto. La cosa che più colpisce è la grande capacità nel saper caratterizzare ognuno di questi personaggi: da papà Cornusse (saggio e squinternato allo stesso tempo) a sua figlia Catherine (che vive stralunata sognando un mondo tutto suo), da Léon Villard (maestro cinico ma gentile) al barone Roland (misterioso e quasi sempre romanticamente assorto), si assiste a un campionario di caratteri che creano una realtà dove ogni cosa sembra magicamente sospesa. Nel piccolo paesello isolato dal resto dell’umanità, dove la neve sembra essere la cosa più reale e tangibile, questa comunità di eccentricamente simpatici individui cerca di venire faticosamente a capo di una serie di gialli che rischiano di minacciare il loro tranquillo Natale. È in qualche modo un assemblaggio delle stilistiche tipiche del realismo poetico, dimostrando come nel cinema di questo periodo ci sia anche un fil rouge che collega sapientemente la narrazione alle estetiche già vistosamente in voga in Francia negli anni Trenta.
All’interno di questa straordinaria kermesse, sono però, in particolare, una figura e un oggetto in grado di focalizzare il senso del film. La prima è naturalmente quella del Babbo Natale, uno e trino: quello impersonato da Cornusse, portatore di rêverie e di speranza, quello rappresentato dal ladro del diamante, che in un certo senso mette in dubbio la natura stessa di quello precedente, e infine quello cadaverico scoperto dai due bambini, in qualche modo raffigurazione di una rimozione (seppur momentanea) di ogni possibile certezza. Insomma, un Babbo Natale vivo e vegeto che dispensa doni e promuove il bene, uno misterioso che ruba anziché donare e uno deceduto (che poi scopriremo essere lo stesso ladro) che per un frangente crea dubbi e confusione, rendendo non più così facilmente identificabile il confine tra verità e menzogna.
Alla fine è però il sogno a essere il tema principale, ciò in cui è necessario credere con tutta la forza possibile e immaginabile, ciò che insomma salverà il mondo (dalla guerra?), rendendo legittima la ricerca di un’interpretazione lungo questa strada. Se la figura è Père Noël, l’oggetto a cui accennavamo risulta quindi un mappamondo. Si tratta di un oggetto simbolico, tanto bramato dal piccolo Christian al punto tale dal farlo alzare dal letto nonostante la malattia. Il globo rappresenta la fiducia nell’umanità, la speranza che al di fuori di un luogo chiuso e quasi intrappolato nel tempo e nello spazio possa esserci l’altro che, tendendo la mano, volenterosamente annienti qualsiasi tipo di divergenza. Eppure è anche, da un’altra prospettiva, un contenitore di cupidigia, perché abitato da uomini che pensano che la ricchezza materiale sia ciò che più conta: l’anello nascosto in uno di questi mappamondi dal farmacista (che poi andrà in frantumi, conseguenza non trascurabile) ne è la dimostrazione lampante. Nell’ultima sequenza, tuttavia, la speranza inebria definitivamente e finalmente ogni particolare: una splendida carrellata circolare ci introduce al grande e liberatorio stupore conclusivo, assieme a papà Cornusse che, con il piccolo Christian sulle ginocchia e il mondo in miniatura tra le mani, racconta al bambino di una principessa che dorme e sogna sempre la solita cosa; un principe affascinante che la svegli e la faccia vivere per sempre felice e contenta. Un possibile riferimento dunque alla Francia (la principessa) e al generale Charles de Gaulle (il principe)? Come si è domandato Gérard Camy su Télérama, “métaphore volontaire ou interprétation d'après-guerre ?”

Pubblicato per la prima volta su Simone Venturini, Il cinema francese negli anni di Vichy, Mimesis, Milano-Udine 2017.

 

mercoledì 19 settembre 2018

Leggere le immagini #23 - Storia dello sguardo


"Che aspetto aveva il mondo visto da uno dei primi Homo sapiens? Com'era il cielo che Galileo scrutava col suo telescopio? Che cosa videro gli astronauti dell'Apollo 8 quando entrarono nel campo gravitazionale della Luna? Perché siamo stregati dal sorriso enigmatico di Monna Lisa? Con Storia dello sguardo Mark Cousins compie un vero e proprio montaggio dei momenti più significativi della nostra storia visiva e ci racconta come e perché sia cambiato il nostro modo di guardare nel corso dei secoli. Assistiamo così allo spettacolo della grande eruzione del Vesuvio del 79; insieme a Newton vediamo cadere la fatidica mela che lo porta a formulare la legge di gravitazione universale; penetriamo l'espressione carica di sofferenza di uno schiavo africano incatenato su una nave diretta in Brasile; ipotizziamo l'occhiata di rimprovero lanciata a Cézanne dalla moglie durante un'estenuante seduta di posa; siamo accanto a Howard Carter quando, nel 1922, scopre la tomba di Tutankhamon. Dal Pleistocene all'era digitale, il modo in cui costruiamo le immagini e quello in cui recepiamo l'oggetto della visione è radicalmente mutato: ed esplorare l'evoluzione del processo visivo equivale a ripercorrere la storia dell'uomo. Album di fotografie e galleria d'arte, road movie e grammatica del linguaggio visuale: "Storia dello sguardo" è un viaggio per parole e immagini che attraversa l'arte e la letteratura, il cinema e la fotografia, la tecnologia e la scienza. Un percorso alla fine del quale non potremo più guardare il mondo con gli stessi occhi".

sabato 15 settembre 2018

Onde di carta #1 - C'era una volta il passo uno

The Automatic Motorist (1911) - Walter Robert Booth

Si parla sempre molto di cinema d’animazione, ma si parla sempre troppo poco della sua storia e delle sue origini. Se volessimo posizionare un punto di partenza per questa storia, dovremmo sicuramente prestare orecchio ai primi vagiti di una delle più straordinarie tecniche di sempre: quella del passo uno. Come molti già sapranno, il passo uno (o stop-motion) è quella modalità di ripresa che consiste nel creare il movimento fotogramma per fotogramma. Tra i suoi pionieri troviamo alcune delle personalità più intriganti dell’intera storia del cinema. La cosa curiosa è che sono quasi tutte inglesi e questo – considerando in quale direzione andrà il cinema qualche anno più tardi – un po’ stupisce.
Sono essenzialmente quattro i nomi che ci interessano. Il primo è quello di Arthur Melbourne-Cooper, un fotografo di St Albans che nel 1899, a causa di una improvvisa necessità da parte del Regno di Gran Bretagna di reperire dei fiammiferi da inviare sul fronte africano durante la guerra anglo-bolera, realizzò un cortometraggio a passo uno - tale Matches’ Appeal - nel quale, appunto, dei fiammiferi vanno magicamente a unirsi per dare vita a dei simpatici omini che scrivono su una parete nera un appello per il reperimento del materiale. Opera sicuramente rudimentale, ma di notevole efficacia.
Il secondo nome è quello di Walter Robert Booth, che nel 1909 gira The Airship Destroyer (preludio ad altri suoi lavori che avranno a che fare sempre con macchine volanti), una cosa un po’ meliesiana sulla paura degli inglesi per un’invasione aerea, con dei dirigibili che attaccano il paese e che verranno fermati da un giovane eroe.
Il terzo protagonista è Edwin S. Porter, unico americano del lotto, famoso per The Great Train Robbery (praticamente il primo western della storia del cinema), nel 1907 gira The Teddy Bears nel quale è presente una sequenza in cui alcuni orsacchiotti giocattolo inscenano una danza più o meno acrobatica.
Infine, l’ultimo nome da considerare è senza dubbio quello di James Stuart Blackton, uomo dai tantissimi primati (come quello di essere stato uno dei primi a sperimentare l’uso del colore), che ha realizzato nel 1907 uno dei primi capolavori del genere, il fantastico The Haunted Hotel in cui un piccolo albergo e quasi tutti gli oggetti contenuti al suo interno vivono di vita propria. 
Rivedere oggi questi curiosi cortometraggi fa un certo effetto: è come se venissimo trasportati per mezzo delle immagini in un’epoca in cui la passione e la dedizione erano veramente l’arma in più di un artista-inventore. Io vi consiglio - nel caso non li abbiate mai visti - di dare un’occhiata (li trovate quasi tutti su YouTube o contenitori simili) e riflettere su quanto il tempo passi, ma l’arte resti grande. Come spesso ha sostenuto John Lasseter, “l’arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte”.

Pubblicato per la prima volta su Amianto, Numero 6, giugno 2018.

martedì 11 settembre 2018

Leggere le immagini #22 - Come vedere il mondo


"Che il potere delle immagini sia cresciuto a dismisura è sotto gli occhi di tutti. Con l'avvento dei nuovi media, la loro produzione è cresciuta vertiginosamente e la loro circolazione è così pervasiva da scandire ogni momento della nostra vita. Solo negli Stati Uniti ogni due minuti vengono scattate più fotografie di quante se ne siano realizzate nell'intero XIX secolo, e ogni mese vengono caricati sul web novantatre milioni di selfie, per non parlare dei milioni di nuovi video postati quotidianamente sui social. II mondo di oggi, sempre più giovane, urbanizzato, connesso e surriscaldato, ci appare inevitabilmente ridotto in frantumi. L'immagine stessa della Terra - non più quella compatta sfera di marmo blu immortalata nel 1972 dallo scatto analogico degli astronauti dell'Apollo 17 - ci viene presentata attraverso un mosaico di foto satellitari che ne ricompongono una forma molto fedele nei dettagli ma di fatto "virtuale", perché non più legata a un unico luogo e tempo. Come possiamo allora reimparare a guardare un mondo che innovazioni tecnologiche, sconvolgimenti climatici e politici hanno trasformato radicalmente nel giro di pochi decenni, e che continua a mutare sotto i nostri occhi a una velocità insostenibile? Nicholas Mirzoeff esplora il modo in cui diamo forma alle immagini e come queste, a loro volta, plasmino la nostra esistenza, scatenando profondi cambiamenti politici e sociali. Nel farlo, l'autore distilla un vasto repertorio di scritti teorici - da John Berger a Walter Benjamin, da Michel Foucault a Gilles Deleuze - ed esamina in una prospettiva storica numerosi fenomeni della cultura contemporanea, muovendosi tra diverse discipline e contesti geografici. Dal selfie, una forma di autoritratto non più appannaggio esclusivo delle élite ma strumento con cui la maggioranza globale dialoga con se stessa, ai droni, che hanno sostituito i generali nell'arte di visualizzare la guerra, Come vedere il mondo è una mappa essenziale per orientarsi nel mare di immagini in cui siamo immersi".

martedì 21 agosto 2018

E adesso che faccio?


 
Isidoro, detto Easy, è depresso, vive con la madre e passa le sue giornate a giocare con i videogiochi. È stato, giovanissimo, pluricampione di go-kart e sembrava avere una carriera assicurata in Formula 1. Poi, però, a un certo punto qualcosa l’ha bloccato, forse perché - come confessa a se stesso nei momenti di sconforto - non era abbastanza bravo. Un giorno suo fratello Filo gli chiede un favore: deve trasportare, in un piccolo paesino dell’Ucraina, una bara con dentro il corpo di un muratore morto in un incidente sul lavoro. È l’occasione giusta: Easy intraprenderà un viaggio che lo porterà soprattutto a conoscere meglio se stesso.
Un viaggio è sempre una storia vera, come ci insegna David Lynch. Una storia che ci dice solo verità, una storia che ci racconta un po’ tutto in rapporto a ciò che vogliamo sapere (cioè intesa anche come “l’intera storia”, in tutte le accezioni possibili del senso di una straight story, insomma). E un viaggio è naturalmente, oltre che una breve storia, qualcosa che ci illustra chiaramente il nostro grado di relazione con il mondo; questo, Easy lo inizia a comprendere fin da subito. Tenendo dunque conto della natura da road movie un po’ intimista, la cosa che colpisce di più del film di Andrea Magnani è come la posatezza e, per certi versi, l’eleganza della messa in scena, siano un qualcosa che si va formando pian piano che il film procede, che scorre, che, appunto, viaggia: un accumulo di piccoli dettagli che fanno del vagabondare di Isidoro e della sua condizione di trentenne disperato e perso nel vuoto, una situazione nella quale non è poi così facile identificarsi. Si configura quindi una commedia agrodolce, per asciuttezza quasi kaurismakiana, che delinea con grande sapienza una linea di demarcazione tra Easy e noi che lo osserviamo (non è un caso che la polarizzazione sia spesso spostata verso lo spettatore: egli conosce, della scena, più del protagonista, come quando i sottotitoli gli permettono di capire ciò che un personaggio ucraino sta dicendo). Ma è proprio questa la sua forza: una capacità di tenere ben serrato un distacco necessario a permetterci di poter osservare con più lucidità il mondo che Isidoro attraversa e che in qualche modo lo rispecchia; un’Ucraina post sovietica che riluce nella sua ruralità e il cui nome ha un preciso significato: “sul confine”. Un confine simile a quello sul quale si trova il nostro protagonista. E non stiamo parlando della dimensione geografica, ma bensì di quella esistenziale, che lo lascia in preda a un’incapacità di sostenere un futuro che si affaccia sì per tutti, ma che per lui è forse qualcosa di faticosamente sostenibile in quanto doppiamente sconosciuto. Perché una volta portata a termine la propria missione, il quesito che si pone è tra i più spietati dei nostri tempi: “e adesso che faccio?"

Pubblicato per la prima volta sul catalogo del festival Presente italiano 2017

 

martedì 14 agosto 2018

La sfiducia nell'immagine


In una Napoli rigida e glaciale, si dipanano le storie di due “amici di letto”, rappresentanti della nuova borghesia partenopea: il primo, Marco Macaluso, è un imprenditore cinico e senza scrupoli; la seconda, Lucia Sembiante, è una professoressa universitaria ninfomane, ma con un senso dell’etica ancora forte. Quando Lucia decide di sposarsi, incontrerà per l’ultima volta Marco, che con il suo addio la porrà di fronte alla possibilità di ribellarsi finalmente a un sistema corrotto e malsano. 
In La buona uscita c’è uno strano senso di sfiducia nell’immagine. Uno scetticismo nella rappresentazione del mondo che fa prediligere il linguaggio come primo veicolo di trasmissione di significati. Non è che la forma non abbia la sua forza, tutt’altro, ma appare come se fosse anestetizzata dalla parola. Parola che quindi in qualche modo si formalizza e si astrae nello spazio tra le immagini. La grandiosità di questo primo lungometraggio di Emilio Iannaccone sta infatti nella mancanza di connessione tra le frasi pronunciate per buona parte del film. Il suo discorso è creato senza ombra di dubbio dalla recitazione, che tritura molti registri espressivi, ma si compone come se volesse essere sempre la parodia di se stessa. Vengono in mente allora i formati post-postmoderni di quella comicità spesso rapida e indolore, di quel modo di atteggiarsi che porta la figura recitante allo stesso tempo lontana e vicina a ognuno dei possibili bersagli della sua spesso spietata ironia. Il personaggio di Marco Macaluso è infatti molte volte proprio questo: un tripudio di insignificanza che si erge a valore assoluto, una fuga continua da una realtà assemblata da fatti che non sussistono. La prima parte del film in questo senso è micidiale: ci troviamo sballottati da una scena all’altra senza comprendere il perché, senza capire le motivazioni che dovrebbero sostenere lo svolgere degli eventi. Quello di Iannaccone è un cinema che frantuma gli interstizi del vezzo attoriale all’italiana (e anche più specificamente, alla napoletana), ne fa una poltiglia e lo ripropone come materia nuova e nuovamente plasmabile. C’è sempre un eccesso, una sproporzione, un’abbondanza che trascina lo spettatore in una fruizione che è in parte godimento e in parte sofferenza per l’impossibilità di sbrogliare ogni gesto assaporato. Poi, però, avviene il miracolo: in equilibrio sul filo dell’antilinguaggio per buona parte del racconto (un antilinguaggio, lo ripetiamo, stracolmo di senso), il film si apre e lascia spazio a un vortice di nuove emotività e sensibilità, stavolta chiare e lampanti, tutte racchiuse nel personaggio sublime di Lucia Sembiante. E nella sua ultima parte, si esprime addirittura chiaramente, trasportando tutto ciò che aveva messo in scena fino a quel momento in un rinnovato spazio espressivo. Parlavo in apertura di sfiducia nell’immagine: mi ero sbagliato. La buona uscita è esso stesso l’immagine lucida di quella via minimale, ma illusoriamente astratta, che il cinema italiano oggi dovrebbe sempre avere il coraggio di percorrere.

Pubblicato per la prima volta sul catalogo del festival Presente Italiano 2016.

martedì 7 agosto 2018

Leggere le immagini #21 - Le immagini delle guerre contemporanee

"Qual è il nostro sguardo sulla guerra? In che modo i nuovi media hanno trasformato i conflitti e hanno mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici rispetto al XIX secolo? Che rapporto esiste tra la percezione (o la crescente anestesia) in relazione alla violenza bellica e i media che la mostrano (o la rimuovono)? Le guerre da sempre sono portatrici di violenza, sangue, morte; sono situazioni nelle quali prendono corpo di volta in volta modi concreti di intendere lo spazio politico, in cui si realizza uno specifico modo di vivere dell'uomo. A un secolo dallo scoppio della Prima guerra mondiale - la prima guerra fotografata in massa, in modo diffuso e dissonante -, a settant'anni dalla Liberazione e dalla chiusura dei campi di sterminio, questa raccolta di studi intende tornare a riflettere su alcuni momenti fondamentali di trasformazione della guerra all'interno della storia contemporanea, a partire dalle immagini cui tali eventi bellici sono connessi. Se le guerre sono i luoghi di esplosione della violenza pura, le immagini ci aiutano a capire se e come i paesaggi che hanno preso forma intorno al fuoco della guerra sono cambiati nel corso del tempo. Le immagini danno un volto alla guerra, indicano il senso (e l'assenza di senso) di un conflitto, in modo consapevole o meno sono prese di posizione politica nella storia".

martedì 31 luglio 2018

Leggere le immagini #20 - Segni, sogni, suoni

"Dopo oltre trentacinque anni dalla nascita di MTV - la prima emittente mondiale dedicata alla musica da vedere - il linguaggio del videoclip è totalmente mutato, amplificando sempre di più le interferenze con gli altri media e gli intrecci con il contesto delle arti visive. Nuovi autori, inoltre, si sono affacciati sulla scena internazionale, ottenendo numerosi riconoscimenti. Strutturato in cinque capitoli, il libro - evitando di limitarsi a un'ottica anglocentrica e allargandosi, attraverso numerosi esempi, ai music video di molti altri paesi - esplora l'universo di questa innovativa forma audiovisiva, da un punto di vista storico (partendo dagli antecedenti del videoclip), isolando alcune tematiche, tendenze e categorie (il clip coreografico, quello narrativo e quello sperimentale), e approfondendo l'immaginario di alcuni registi e musicisti in particolare, senza tralasciare, nell'ultimo capitolo, un focus sulla storia della videomusica italiana".

martedì 24 luglio 2018

Leggere le immagini #19 - Il discorso e lo sguardo

"Il discorso e lo sguardo traccia un atlante cinematografico in forma scritta. I film non sono solo i testi audiovisivi che siamo abituati a vedere in sala e a casa nostra, ma anche luoghi di discussione ed elaborazione culturale. La critica si incarica di analizzarli e di determinare un giudizio di valore estetico. La cinefilia, invece, assume il cinema come oggetto di passione e pratica la relazione con i film come se si trattasse di rapporti sentimentali, fatti di amore, desiderio, lite, odio, e ancora ritorno di fiamma e riappacificazione. Per raccontare questo mondo, sconvolto per di più dalle trasformazioni dei media e del consumo dei film nell'era digitale, il volume assume diversi punti di vista: dallo spirito letterario al piglio storico, dall'analisi del film al confronto intellettuale con i maestri. Ogni aspetto della cultura cinematografica, scritta e vissuta, viene di volta in volta affrontato: le recensioni, i festival, il divismo, i blockbuster, il cinema d'autore, la teoria, e le nuove forme di consumo, dai blog alle serie televisive".

martedì 17 luglio 2018

Leggere le immagini #18 - Cultura video

"Il volume mira a indagare la nascita della cultura video in Italia e a delineare una sua mappa concettuale attraverso i discorsi, le pratiche e le tecnologie di usi tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento, ossia durante l’affermazione del video analogico. Prendendo avvio dalla rielaborazione del concetto di cultura filmica, si osservano non le espressioni artistiche connesse al nastro magnetico, ma la sua diffusione “dal basso” e “di massa”. In particolare, il libro si concentra sull’analisi delle riviste specializzate tra il 1970 e il 1995 (anno in cui la comparsa delle prime tecnologie digitali per il mercato consumer segna un cambio di paradigma mediale): tali riviste, infatti, rappresentano un repertorio fondamentale per la mappatura del dibattito che regola la nascita e l’affermazione della cultura video all’interno della società italiana".

giovedì 12 luglio 2018

Il cinema è un sonno. Cinque film sul riposo dal mondo


È bene chiarire immediatamente una cosa: parlare di un ipotetico “vuoto” cinematografico potrebbe anche voler dire mettersi a riflettere sull’autoreferenzialità del cinema stesso, e cioè sul fatto che alcune pellicole parlino solo e unicamente di sé o che, comunque sia, decidano di descrivere qualcosa che non vada mai al di là dei confini oltre i quali si trova il mondo. Cercare dunque delle tappe per un cinema del genere potrebbe risultare un’impresa assai ardua: parlarne con libertà - e quindi in un modo assolutamente non vincolato - è una necessità che, in una riflessione di questo tipo, risulterebbe ineliminabile. Leggere i vuoti intrinseci del cinema non è l’impresa che vorrei però affrontare in questa sede, quella che sento è invece l’urgenza di crearne alcuni di personalissima fattura: il vuoto inteso in questo caso è quindi quello spazio che resta tra il film e il mondo. Un vuoto divisorio, un vuoto che separa, un vuoto che non viene percepito ma che riesce a farsi sentire tramite questa assenza che è poi la sua stessa essenza (dal momento che è pensabile, esso è). Come scriveva Freud: “Il sonno è uno stato nel quale io non voglio saper nulla del mondo esterno, ho ritirato da esso il mio interesse. Nel mettermi a dormire mi ritraggo dal mondo esterno e tengo lontani da me i suoi stimoli. Mi addormento, anche, quando ne sono stanco. Nell’addormentarmi dico dunque al mondo esterno: lasciami in pace perché voglio dormire” (Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi, in Sigmund Freud, Opere. 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 264).
Esistono dei film che sono il nostro pretesto per metterci a riposo dal mondo. Eccone cinque tra i più importanti di sempre:


Bianca di Nanni Moretti

Di un film del genere se ne sente il bisogno già prima di averlo visto. Un film, tutto sommato, di genere, con quelle sue incursioni in territori differenti (rispetto a ciò che pensiamo di vedere), con quelle risoluzioni che attorcigliano i sensi prima ancora che essi si siano stabilizzati.
C'è niente e tutto, dentro questo contenitore: c'è, sopra-tutto, la consapevolezza che esistere sia la cosa più faticosa in assoluto. Come schegge impazzite ci ritroviamo a voler essere gli Altri, per poter vivere quello che, se fosse dentro noi, sarebbe aprioristicamente evitato.
E allora ecco una vita, dieci vite, cento vite che si stropicciano strofinandosi tra loro, che storcono il naso solo perché non in grado di essere vive ognuna nell'esistenza dell’altra. Poi arriva anche l'ironia (quella che sostiene il mondo, non certo quella del falso pensiero o della vera ipocrisia) ma forse non proprio immediatamente, un po’ in là, spostata nel tempo - ma non nello spazio, in quanto è, nei luoghi, ovunque presente -, ed è di quelle ironie che trasportano il seme della sensibilità: di quelle più pure insomma, di quelle più autentiche.
Ma tutto alla fine resta e niente resta, come il cellulare della polizia (quello dell'ultima sequenza, ma, volendo, anche quello metaforico della negazione-di-libertà) che ci lascia succubi e allo stesso tempo fedeli a quella cosa tragica e distruttiva che siamo soliti chiamare Destino.
Un film che vive a fa (soprav)vivere, per tutta la sua durata e anche per sempre.
È un sonno ristoratore.


Tokyo Fist di Shin'ya Tsukamoto

La violenza della/nella crudeltà, un pensiero smarrito che si muove rapsodicamente e poi fluttua, come il corpo di Tsuda che galleggia nel grigiore della fredda Tokyo.
Il respiro dei colpi, la rarefazione della carne che gonfia e si sgonfia similmente a quella brama di vivere, che, nello stesso modo, attraverso il cammino dell'esistenza, ci fa veramente “essere”. Il montaggio serrato e schizofrenico è come l’incubo del reale, che si riflette in maniera spasmodica negli angoli bui della vita di ciascun vivente.
Incredibile, invece, è la pazienza dei volti, che attendono di morire e rinascere per mezzo di un masochismo desiderato ma allo stesso tempo rifiutato ed evitato; prima trovato ed entusiasticamente sperimentato, poi, di nuovo, mal sopportato e abbandonato, come l’idea di un nuovo postumanesimo cicatrizzata nella mente di Hizguru, colei che martirizza al contempo se stessa e tutto il genere femminile.
Tokyo Fist è ciò che siamo e ciò che non siamo, ma prima di tutto, è quello che vorremmo essere.
È un sonno straziante.


Cul-de-sac di Roman Polanski

Un cerchio aperto e poi chiuso. Cul-de-sac, non se ne esce. In verità nemmeno si entra, perché in quel micro universo tutto funziona secondo logiche particolari, che chiudono il flusso verso l’esterno e di conseguenza verso il proprio interno.
Personaggi di un astrattismo che rasenta la realtà (perché questa, in fondo, lo è più dei sogni astratta, o di qualsiasi altra cosa che abbia il sapore dell’intangibile e dell’immateriale), circoli che si chiudono non su se stessi ma su altro che ancora non ci è dato sapere.
La luce, poi, non sembra essere percepibile, nemmeno - e sono la maggior parte - nelle scene diurne, perché a oscurarla c’è sempre e comunque l’animo corrotto di tutti i personaggi - ma loro in fondo non ne hanno la minima colpa - che ci appaiono sullo schermo. Il grottesco, la più grande qualità del film, appare come qualcosa di non ben definito, come un demone che s’inoltra nelle intercapedini delle immagini e da esse trae sostentamento.
È il Polanski più allegro/triste di sempre.
È un sonno perenne.


Viridiana di Luis Buñuel

C’è il terrore di assumerli i connotati di Viridiana, di assomigliarle come è dentro, di metamorfizzarsi unicamente nella direzione di quel “bigottismo” poche volte nominato all’interno della pellicola, ma con un’intensità tuttavia abbacinante, con una potenza incontrollabile.
La povertà, intesa come condizione sociale, è stracciata in quanto a sua volta vuota di ciò che (forse) è per l’essere umano la cosa più preziosa: la cultura. Cultura però concepita non in modo - di nuovo - bigotto o stantio, bensì in una maniera che è quella dell’avvicinamento vero e sincero all’armonia delle passioni, al tripudio della purezza dello spirito.
Buñuel ci insegna che ogni cosa deve essere letta secondo le precise logiche della sensibilità dell’animo umano, e non secondo un edonismo inesistente e facente parte solo di quel mondo fittizio e ideale che è a noi in verità meno apparente di quanto in realtà sia.
La chiave funzionante come passepartout è quella meno facilmente rintracciabile: tutto ciò che vediamo, assaporiamo, interiorizziamo è talmente concentrato e evanescente che sembra quasi si ritorni nuovamente a parlare di automatismi psichici.
Sì, è ancora una volta Surrealismo.
È un sonno trasparente.


L’Arpa Birmana [ビルマの竪琴] di Kon Ichikawa

I movimenti dell’anima e quelli del corpo, come flussi che si spostano nella stessa direzione ma che non si incontrano mai. “Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania”. Mizushima: l’uomo che sacrifica la vita, innalzando lo spirito per dare sepoltura alle macerie della guerra e del materialismo.
Non c’è scampo su questa terra se non si è consci del fatto che ciò che non è Pensiero ci porta irrimediabilmente all’autodistruzione.
La pietà opposta alla crudeltà, il pacifismo più intenso alla violenza più cruda, e la carità come mezzo per annullare le sofferenze umane. Visioni utopistiche che grazie a Mizushima riescono, seppur per pochi istanti, a divenire qualcosa di estremamente concreto.
Un urlo silenzioso che rimbomba, nel vuoto, irritante e scomposto rumore dell’indifferenza.
È un sonno sofferente.


La cosa più straordinaria di questi film è la loro incredibile capacità di diversificare la rappresentazione, di non far mai conformare uno all’altro alcuno degli elementi contenuti in essa. Nella realtà (nel mondo) oggi tutto rischia di essere percepito su uno stesso livello, e ogni cosa che si sceglie di rappresentare finirà inevitabilmente con l’omologarsi alla totalità del sistema di destinazione. Come afferma Jacques Rancière: “tutto è ormai sullo stesso piano, i grandi e i piccoli, gli eventi importanti e gli episodi insignificanti, gli uomini e le cose. Tutto è uguaglianza, ugualmente rappresentabile. Questo ‘ugualmente rappresentabile’ è la rovina del sistema rappresentativo” (Jacques Rancière, Il destino delle immagini, Pellegrini Editore, Cosenza 2007, p. 169). C’è però un certo modo di fare cinema - in particolare in certi film fiabeschi, tra i quali possiamo includere tranquillamente quelli elencati poco più sopra - nel quale la rappresentazione si fa multifunzionale e polifonica. In questo tipo di cinema gli elementi messi in scena non sono uno simile all’altro ma, al contrario, ognuno è ben distinto e contenuto in un suo involucro caratterizzante. I film realizzati attraverso questo modo di esprimere la rappresentazione ci tengono lontani dal mondo in quanto ne creano un altro; ed è un mondo che si crea non tanto grazie all’unione dei loro elementi, ma più specificamente per mezzo della caratterizzazione delle particolarità delle loro particelle costituenti. Quando questo tipo di film entra in azione la nostra realtà non persiste più e il flusso di quelle immagini in movimento trasforma lentamente ogni cosa in una nebulosa attraverso la quale è terribilmente complesso riuscire a districarsi; citando Jean Cocteau, si entra in “una specie di stato sonnambolico che incoraggia la combinazione, il collegamento e la deformazione del libero flusso di ricordi, finché essi assumono una forma a noi estranea e diventano un enigma” (Jean Cocteau in Alfredo Leonardi, Occhio mio dio. Il New American Cinema, CLUEB, Bologna 2006, p. 27). Allora, e solo allora, il cinema diverrà un meraviglioso sonno.

Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 39, luglio/agosto 2013