Isidoro, detto Easy, è depresso, vive con la madre e passa le sue
giornate a giocare con i videogiochi. È stato, giovanissimo, pluricampione di
go-kart e sembrava avere una carriera assicurata in Formula 1. Poi, però, a un
certo punto qualcosa l’ha bloccato, forse perché - come confessa a se stesso
nei momenti di sconforto - non era abbastanza bravo. Un giorno suo fratello
Filo gli chiede un favore: deve trasportare, in un piccolo paesino
dell’Ucraina, una bara con dentro il corpo di un muratore morto in un incidente
sul lavoro. È l’occasione giusta: Easy intraprenderà un viaggio che lo porterà
soprattutto a conoscere meglio se stesso.
Un viaggio è sempre una storia vera, come ci insegna David Lynch. Una
storia che ci dice solo verità, una storia che ci racconta un po’ tutto in rapporto
a ciò che vogliamo sapere (cioè intesa anche come “l’intera storia”, in tutte
le accezioni possibili del senso di una straight
story, insomma). E un viaggio è naturalmente, oltre che una breve storia,
qualcosa che ci illustra chiaramente il nostro grado di relazione con il mondo;
questo, Easy lo inizia a comprendere fin da subito. Tenendo dunque conto della
natura da road movie un po’ intimista, la cosa che colpisce di più del film di
Andrea Magnani è come la posatezza e, per certi versi, l’eleganza della messa
in scena, siano un qualcosa che si va formando pian piano che il film procede,
che scorre, che, appunto, viaggia: un accumulo di piccoli dettagli che fanno
del vagabondare di Isidoro e della sua condizione di trentenne disperato e
perso nel vuoto, una situazione nella quale non è poi così facile
identificarsi. Si configura quindi una commedia agrodolce, per asciuttezza
quasi kaurismakiana, che delinea con grande sapienza una linea di demarcazione
tra Easy e noi che lo osserviamo (non è un caso che la polarizzazione sia
spesso spostata verso lo spettatore: egli conosce, della scena, più del
protagonista, come quando i sottotitoli gli permettono di capire ciò che un
personaggio ucraino sta dicendo). Ma è proprio questa la sua forza: una
capacità di tenere ben serrato un distacco necessario a permetterci di poter
osservare con più lucidità il mondo che Isidoro attraversa e che in qualche
modo lo rispecchia; un’Ucraina post sovietica che riluce nella sua ruralità e
il cui nome ha un preciso significato: “sul confine”. Un confine simile a
quello sul quale si trova il nostro protagonista. E non stiamo parlando della
dimensione geografica, ma bensì di quella esistenziale, che lo lascia in preda
a un’incapacità di sostenere un futuro che si affaccia sì per tutti, ma che per
lui è forse qualcosa di faticosamente sostenibile in quanto doppiamente
sconosciuto. Perché una volta portata a termine la propria missione, il quesito
che si pone è tra i più spietati dei nostri tempi: “e adesso che faccio?"
Pubblicato per la prima volta sul catalogo del festival Presente italiano 2017
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