martedì 20 marzo 2018

Cinema d’autore e cinema popolare: la consapevolezza dello spettatore nell’Italia contemporanea

 
In Introduzione alla storia del cinema, Paolo Bertetto individua alcune caratteristiche tipiche del regista d'autore:
- Segue tutte le fasi della produzione cinematografica, dallo sviluppo dell'idea al montaggio, con particolare attenzione alla sceneggiatura.
- Deve riconoscersi in un particolare stile, legato alla sua originalità espressiva.

Ne consegue che:
- I film d'autore affrontano contenuti complessi e poco commerciali.
- I film d'autore danno meno peso al puro intrattenimento, ma preferiscono far riflettere lo spettatore, che quindi non può più assistere passivamente alla proiezione.
- Spesso il film d'autore è inserito in un complesso di opere dello stesso autore, per questo riconoscibile.

Il cinema d'autore europeo nasce nel periodo che intercorre tra la fine del Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague francese. Ed è proprio in Francia che si sviluppa il concetto con la discussione tenuta dai Cahiers du cinéma, nella quale viene riconosciuto al regista del film la paternità sull'opera, in pratica un autore con un proprio stile. 
Nella stessa epoca si impone anche la distinzione tra film “d’arte” e film “popolari”. Il film d’arte era esistito fin quasi dagli albori del cinema, ma gli anni Cinquanta videro la nascita di nuove istituzioni e la valorizzazione di quelle già esistenti, con lo scopo di distinguere i prodotti di qualità da quelli destinati al consumo di massa. La loro sede naturale fu l’Europa, perché l’unico segmento del mercato internazionale nel quale le pellicole europee (e asiatiche) erano in grado di competere con gli Stati Uniti era proprio quello dei film d’autore. Ma anche il film “popolare” aveva le sue peculiarità. Proprio in Italia, importanti furono sul “fronte popolare” film come quelli del neorealismo rosa: Vittorio Spinazzola afferma infatti che unificarono il pubblico, accomunando città e provincia, centro e periferie. Egli ne valorizza in particolare gli elementi di innovazione a livello tematico (l’autonomia e l’intraprendenza dei personaggi femminili), che pure convivono con gli elementi conservatori (il bozzettismo, il dialettismo, la morale sostanzialmente - ma non sempre - tradizionalista). 
Ho preso in considerazione questi piccoli esempi, ricapitolando brevemente la storica distinzione tra cinema d’autore e cinema popolare, per avere un punto di partenza: il problema è che oggi la distinzione fra i due campi è molto sfumata e anche il pubblico non ne recepisce così chiaramente i relativi confini. Lo spettatore italiano (ma potremmo tranquillamente estendere il discorso all’Europa continentale e a una parte di quella mediterranea restante) riceve e vive il cinema d’autore riconoscendolo sempre sotto una prospettiva che lega la fruizione alla necessità di identificare sempre un marchio di fabbrica. Come sostiene Guglielmo Pescatore, questo marchio di fabbrica, questa forma di comunicazione diretta sopra e attraverso il testo in cui autore e spettatore si ritrovano reciprocamente nella riconoscibilità di certe marche testuali, sembra funzionare come una sorta di antidoto ai rischi di polverizzazione della figura autoriale che il sistema dei media e dei new media porta inevitabilmente con sé. La presenza di un carattere fisso, di un elemento a cui riferirsi che etichetti il prodotto e lo renda disponibile al consumatore, motiva quindi il ricorso alla logica del brand. A garantire un certo grado di sicurezza allo spettatore, resta l’universo creativo di riferimento, il fatto che si faccia leva su una marca nota, un autore “noto per”. 
Queste osservazioni restano ovviamente valide in termini generali anche in uno scenario come quello attuale, in cui le cose appaiono sempre più complesse. Come osserva Giacomo Manzoli, da un lato è curioso vedere la persistenza dello schema mentale che conduce ancora a incasellare i film secondo il paradigma assiologico dell’alto e del basso, del commerciale o dell’autoriale. Un paradigma che la ben più sofisticata conoscenza delle audience e delle culture di gusto ci indurrebbe a ritenere sorpassato, ma che invece guida ancora le pratiche di fruizione e i discorsi sociali relativi al cinema di gran parte degli spettatori, come dimostra ad esempio il caso dei cinepanettoni (o di quel che ne è rimasto). Probabilmente questo è anche dovuto a uno scenario mediale nel quale il ruolo del cinema è sempre più marginale e può darsi che progressivamente sia esso stesso a essere percepito come oggetto elitario o di nicchia. Dall’altro lato, la diffusione dell’affermazione della cultura popolare come tale fa sì che queste distinzioni siano sempre più inefficaci. 

 
In definitiva, lo spettatore italiano percepisce una differenza tra cinema d’autore e cinema popolare:

- A seconda del luogo in cui si trova: in Italia ci sono molti cinema che vengono riconosciuti come luoghi contenitori di una cultura “alta” e organizzati in modo che la proposta sia sempre legata a un cinema d’autore classicamente inteso. In questi spazi lo spettatore non si domanda a quale tipologia appartenga il film che sta vedendo, ma è già certo che si inserisca in quella determinata categoria.

- A seconda del livello di fama che il regista ha: spesso, nella contemporaneità, l’autore viene riconosciuto dallo spettatore medio italiano in quella figura che ha ottenuto un notevole successo. Il problema risiede anche nel fatto che i film indipendenti distribuiti nei cinema sono assai meno rispetto a un tempo e la distinzione tra alto e basso viene spesso effettuata unicamente all’interno della grande distribuzione. Essendoci meno film che circolano per le sale (che sono poi quelli più distribuiti) anche il confine tra cinema popolare e cinema d’autore si assottiglia. I veri film d’autore, insomma, diventano in qualche modo quelli invisibili o recuperabili attraverso altri canali (internet, dvd, ecc.).

- A seconda di uno stereotipo: l’idea stantia che un film d'autore dia meno peso al puro intrattenimento, preferendo far riflettere lo spettatore, è ancora viva in molte situazioni di fruizione (soprattutto quando l’età dello spettatore è alta).

Da un altro lato però:

- La dimensione di autorialità sta progressivamente, nell’immaginario collettivo italiano (e qui verrebbe da aggiungere: e non solo), diventando cosa comune per tutto il cinema, come se la graduale marginalizzazione del medium lo rendesse esso stesso un prodotto autoriale a prescindere da qualsiasi genere e contesto. In questo, comunque sia, è stato condizionato anche dalla crescente consapevolezza dello spettatore medio nei confronti del valore effettivo della cultura cosiddetta popolare. In un certo senso, anche se inconsapevolmente, per lo spettatore cinematografico tutto rischia di essere allo stesso tempo autoriale e popolare, proprio perché questa distinzione sembra non essere più così importante come lo era un tempo.


BIBLIOGRAFIA

- Bertetto, Paolo (a cura di), Introduzione alla storia del cinema, Utet, Torino 2002.

- Carluccio, Giulia; Malavasi, Luca; Villa, Federica, Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Carocci, Roma 2015.

- Hall, Stuart, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi coloniali e postcoloniali, Meltemi, Roma 2006.

- Manzoli, Giacomo, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma 2012.

- O’Leary, Alan, Fenomenologia del cinepanettone, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2013.

- Pescatore, Guglielmo, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma 2006.

- Sassoon, Donald, La cultura degli europei. Dal 1800 a oggi, Rizzoli, Milano 2008.

- Spinazzola, Vittorio, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945 - 1965, Bulzoni, Roma 1985.


giovedì 15 marzo 2018

Leggere le immagini #13 - Storie dell'altro cinema

 
"Che cosa ci facevano i cinesi a Torino? E cosa accomuna un regista zarista quale Evgenij Bauer e uno bolscevico quale Aleksandr Medvedkin? Un cantante nero quale Paul Robeson e un fotografo bianco quale Paul Strand? Un bengalese quale Satyajit Ray e un senegalese quale Sembene Ousmane? Cosa può legare i cineasti di Ucraina, Uzbekistan, Armenia da un lato e quelli di Serbia, Croazia, Slovenia dall'altro? Per cosa si battevano Humberto Mauro, André Malraux, Yilmaz Gùney? Amavano lo stesso cinema sir Michael Balcon e Andy Warhol, Powell & Pressburger e Kon Ichikawa, Sergej Jutkevic e Costa-Gavras? Il lettore troverà tutte le risposte nelle storie raccolte in questo volume, in cui Casiraghi, con le consuete qualità di affabulatore, ci racconta, accanto a nomi a tutti noti, nomi dimenticati ma sempre caratterizzati da almeno tre elementi: libertà, innovazione e poesia. Se rivoluzionari, meglio ancora. Perché Karl, che il cinema ha tentato invano di tradurre sullo schermo, e Groucho, Chico, Harpo, che il cinema ha tentato invano di imbrigliare, recano lo stesso cognome: Marx".