venerdì 12 dicembre 2014

Immaginari spazi infiniti


Il Film Guild Cinema, New York, 1928. Architetto Frederick Kiesler.
"Il cinema è un gioco di superficie, il teatro è una performance nello spazio, e questa differenza non si è ancora tradotta concretamente in nessuna architettura, né per il teatro né per il cinema. Il cinema ideale è la sala del silenzio. Mentre a teatro ogni spettatore deve perdere la sua individualità per fondersi in un'unità completa con gli attori [...]. La qualità più importante di un auditorio è questa: la sua capacità di suggerire un'attenzione concentrata, distruggendo al contempo la sensazione di contenimento che può facilmente crearsi quando lo spettatore si concentra sullo schermo. Lo spettatore deve essere in grado di perdersi in un immaginario spazio infinito".

Friedrick Kiesler

giovedì 27 novembre 2014

Come risolvere un enigma


Marathon è un film che vive di ossessioni: quelle per gli spazi pieni della metropoli e quelle per gli spazi vuoti delle caselle del cruciverba. I primi da svuotare, i secondi da riempire. E vive delle ossessioni delle voci intrecciate e dei volti indistinguibili e dei tratti di metropolitana tutti simili a se stessi. Il bianco e nero è come un rimando continuo ai colori dell’enigma “cruciverbale” e il problematizzare la realtà è come rendere essa stessa un enigma. Problematizzarla perché, in quanto contenente la vita, è composta da problemi da risolvere e da spazi da riempire, proprio come accade (di nuovo) in un cruciverba. Ma per sottrarsi alle ossessioni spesso può bastare la pura visione di una Natura che ancora può riuscire a cambiare faccia al grigiore della quotidianità; la soluzione a questo splendido enigma c’è ed è là fuori. È la neve, più bianca che mai.

martedì 22 luglio 2014

L'uomo che mangiava per uccidere meglio

Luciano Loatelli, "Metamorfosi", olio su tela


"La mia prima storia è ambientata in una foresta vergine spaventosa, dove signoreggia un piccolo falco dal becco rosso – in verità, un portentoso cacciatore. Ha la vista così acuta che, da un’altezza considerevole, riesce a distinguere un verme che striscia per terra, tra due foglie putrescenti; quindi, piomba su di lui e lo solleva in cielo, con una celerità e una precisione fulminanti.    Nella foresta di cui parlo, le qualità di questo piccolo rapace lo rendono qualcosa o qualcuno di simile a un dio. L’uomo che sopravvive in quello stesso luogo dimentica quasi di cacciare per sé: continua a guardare lo splendido uccello e resta per ore, con la faccia rivolta all’insù, gli occhi asciutti e brucianti, a contemplare la calma nobile e ipnotica delle sue planate concentriche, mentre questi spia o sceglie la sua preda; poi il tratto rosso del suo becco, che fende il cielo come se fosse il segno stesso – il segno acuminato, già sanguinante – della sua predazione magica.    L’uomo, ovviamente, invidia l’uccello. Lo ama e lo venera, ha il massimo rispetto per la sua capacità di vedere – di vedere e di cacciare così bene. Perciò diventa geloso, e inizia a odiare quel potere animale dello sguardo e la sua destrezza nell’arte di uccidere. Alla fine, come fanno quasi sempre gli uomini in situazioni del genere, lo ucciderà, approfittando di un istante in cui il piccolo falco stava divorando con gli occhi una marmotta impaurita. Dopo una lunga corsa tra il groviglio degli alberi, troverà il suo corpo per terra. Allora lo prenderà tra le mani, lo alzerà sopra il suo volto rovesciato all’insù, gli caverà gli occhi. E ne farà colare l’umor vitreo nei suoi, come se fosse un collirio. Poi riprenderà a cacciare, ormai certo che nulla potrà sfuggirgli.    Frazer, da cui prendiamo in prestito questa storia amazzonica, la chiama «magia omeopatica».(248) Quando afferma con sufficienza che «il selvaggio […] crede naturalmente di assorbire, con la sostanza materiale, una parte di divinità», senza dubbio semplifica.(249) Nonostante il lussureggiante colore locale, qui nulla può decidersi «naturalmente». Tuttavia, il commento di Frazer tocca un problema fondamentale dell’antropologia, e dell’estetica: quello dell’arte di incorporare, quando l’incorporazione tende ad aprire, o a far germogliare, la potenza – l’essenza, forse – magica dell’atto di somigliare . Ovviamente, scorgiamo l’enunciato del più antico adagio che muove la medicina: similia similibus curantur, le cose simili possono essere guarite solo da cose simili…(250) Ma possiamo anche definirlo un imperativo immaginario,
che, letteralmente, costringe l’uomo a mangiare ciò a cui vuole somigliare, o a mangiare ciò che vuole essere.    L’indiano Kobeua, dunque, spreme l’occhio che vorrebbe avere, quello del falco, nel proprio: occhio per occhio – dove la preposizione per indica ciò che «sottolinea il rapporto tra una cosa che esercita la propria influenza e la persona su cui tale influenza viene esercitata».(251) Perché la procedura simbolica e l’operazione del «facente funzione», in questo caso, si realizzano in un atto di assorbimento, in un’intimità che immaginiamo sconvolgente. Concretamente, questo indiano mangiava per vedere. Perché il fatto di spremere l’umor vitreo dell’uccello tra le sue labbra o tra le sue palpebre era già un modo di mangiare – o piuttosto, nel caso specifico, un modo di bere. In altre foreste, altri indiani mangiano gli occhi dei gufi per poter vedere al buio.(252) Altrove, gli uomini divorano i loro uccelli augurali – corvi e falchi – per vedere nel futuro.(253)    L’atto di mangiare diventa così l’esercizio per eccellenza di un rito di passaggio, un’iniziazione al potere – in particolare, al potere di uccidere. Quando la giovane mamma porge al suo angioletto una cucchiaiata di minestrina dicendo scherzosamente Mangia, non sai chi ti mangerà,(254) sa benissimo che bisogna mangiare se non si vuole morire, cioè se non si vuole essere uccisi. Ma forse non sa che, in tutto il mondo, bisogna anche mangiare per uccidere meglio, e addirittura mangiare quello che si vuole uccidere, cioè quello che, in un modo o nell’altro, abbiamo già ucciso. Perciò l’estenuante repertorio di Frazer non cessa di scuoterci – di cagionarci qualcosa a mezza via tra l’angoscia e la risata isterica –, come ci scuote, in tutti i sensi, la parola onnivoro, attribuita, come è noto, a moltissimi uccelli, ai maiali, ai ratti e ovviamente agli uomini, onnivori fino al delirio (cioè fino a farne un vero e proprio sistema), onnivori fino all’omovoracità. È la voracità tipica dei rituali, la voracità tipica di ogni credenza. Una sola pagina, che già ci sembra interminabile, sulle due o tremila dell’opera di Frazer, sarà sufficiente a farci riaprire gli occhi:

I guerrieri delle tribù Theddora e Ngarigo, nell’Australia meridionale, mangiavano, per acquistare coraggio, le mani e i piedi dei nemici uccisi. Nella tribù Dieri dell’Australia centrale, una volta che un condannato era stato ucciso, le armi che erano servite all’esecuzione venivano lavate in un piccolo recipiente di legno, e la miscela di sangue era distribuita ai boia, secondo un preciso rituale: essi si stendevano sulla schiena e gli anziani versavano loro il liquido nella bocca. Si credeva che questo procedimento aumentasse la loro forza, il loro coraggio e la loro energia, in vista dell’impresa successiva. I Kamilaroi del Nuovo Galles del Sud mangiavano il fegato e il cuore dei valorosi, e nel Tonchino è superstizione popolare che il fegato dei coraggiosi comunichi coraggio a chi ne mangia. Così, quando nel Tonchino venne decapitato un missionario cattolico, nel 1837, il boia strappò il cuore della vittima e ne mangiò una parte, mentre un soldato cercava di divorarne un altro pezzo crudo. Con lo stesso scopo i Cinesi inghiottono la bile dei famosi banditi giustiziati. I Daiachi di Sarawak mangiavano il palmo delle mani e la carne delle ginocchia agli uccisi per aver mani ferme e ginocchia robuste. I Tolalaki, notissimi «cacciatori di teste» del Celebes centrale, bevono il sangue e mangiano il cervello delle loro vittime per diventare coraggiosi; gl’Italones delle Filippine bevono il sangue dei nemici uccisi e per lo stesso scopo mangiano cruda la parte posteriore della testa e delle viscere. Gli Efugao, altra tribù delle Filippine, succhiano il cervello del nemico, e i Kai della Nuova Guinea ex tedesca lo mangiano. Presso i Kimbunda dell’Africa occidentale, quando un nuovo re sale al trono, si uccide un prigioniero di guerra coraggioso e il re con i nobili lo mangiano per ottener la sua forza. Il famigerato capo zulù Matuana aveva bevuto il fiele di trenta capi di popolazioni da lui distrutte, credendo di farsi più forte. Gli Zulù immaginano che la forza di guardare coraggiosamente in faccia i nemici si acquisti mangiando il centro della fronte e le sopracciglia di un nemico. A Tud, o Isola del Guerriero, nello stretto di Torres, gli uomini bevevano il sudore di celebri guerrieri, e mangiavano i residui di sangue umano avanzati sotto le unghie delle loro mani, per diventare «forti come la pietra, e non conoscere la paura». A Nagir, un’altra isola dello stretto di Torres, per infondere coraggio ai più giovani, il guerriero prendeva l’occhio e la lingua di un uomo che aveva ucciso e, dopo averli sminuzzati, li mescolava con la sua orina; il tutto veniva poi somministrato al giovane, che sedeva ad occhi chiusi tra le gambe del guerriero. Gli indigeni di Minhassa del Celebes, prima di ogni spedizione guerresca, prendevano i capelli di un nemico ucciso e li immergevano nell’acqua bollente per estrarne il coraggio; l’infusione era poi bevuta dai guerrieri.(255)

E così via. Come vediamo, non si tratta solo della materializzazione dell’adagio «l’uomo è un lupo per l’uomo»: con un po’ di raffinatezza in più (di crudeltà, intendo), l’uomo può essere anche un tè per l’uomo, oppure la sua migliore pietanza ricostituente, il brodo sopraffino che permetterà di uccidere meglio. Dammi da mangiare la tua fronte, perché io possa vederti in faccia, dominare la tua morte, e dunque la mia. Per godere idealmente del potere di ucciderti, e di essere altrettanto coraggioso quando sarai tu a mangiare me.
In fin dei conti, nella logica del racconto di Frazer, questa voracità rituale mirerebbe proprio a far diventare, a far essere un dio. Il desiderio estremo sarebbe forse, semplicemente, quello di mangiare il cielo. È quanto accade in altre foreste, dove un giorno un uomo decide di mangiare quel che cade dal cielo. Divora gli uccelli, beve la pioggia. Ma, soprattutto, fa la posta a tutto ciò che è stato colpito dal fulmine: pasteggia con i resti delle combustioni celesti – animali folgorati, alberi carbonizzati, meteore –, e con essi prepara degli unguenti che poi incorpora attraverso la pelle, per scarificazione, come se volesse aprirsi cento bocche. Così, il cielo entra in lui. A poco a poco, egli diventerà il cielo, il suo custode sulla terra o, per usare le sue parole, il suo rappresentante:   

Infatti, quando il cielo è sul punto di oscurarsi, prima che compaiano le nubi o rombi il tuono, il cuore del guardiano celeste sente arrivare il temporale: comincia a fremere, è eccitato dalla collera. Quando il cielo comincia a incupirsi, anche l’uomo si incupisce; quando il cielo tuona, lui aggrotta le sopracciglia perché il suo volto sia corrucciato come l’espressione irritata del cielo.(256)        

Immagino anche che egli pianga quando piove, e che si sfiati quando c’è vento. Immagino che questo vorace esercizio della somiglianza lo aiuti a non sentirsi troppo morire sotto al sole".


Tratto da: Georges Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
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248. James G. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, Macmillan, London 1890-1915, 12 voll. (n. ed. St. Martin Press, New York 1990) [trad. it. – dell’ed. ridotta del 1922 – Il ramo d’oro. Della magia e della religione, Borighieri, Torino 1973, p. 272].

249. Ibid. (trad. modificata).

250. Ippocrate, De loci in homine, XLII, 2, in Œuvres, XIII, a cura di Robert Joly, Les Belles Lettres, Paris 1978, p. 72.

251. Émile Littré, Dictionnaire de la langue française (1866), Éditions du Cap, Monte Carlo 1966, III, p. 4897.

252. Cfr. Frazer, Il ramo d’oro cit., p. 773.

253. Cfr. ibid. Comincia a essere chiaro che, a contrario, mangiare la carne di un pollo rende paurosi – o che mangiare la carne di una tartaruga impedisce di correre [cfr. ibid., p. 772].

254. La diffusa espressione mange, tu ne sais pas qui te mangera per estensione significa «goditi la vita». Ma nel contesto, ovviamente, si è preferito tradurla letteralmente. [N. d. T.].

255. Frazer, Il ramo d’oro cit., pp. 775-76 (trad. modificata e integrata). La pagina è tratta dallo stesso capitolo, dal titolo «Magia omeopatica di una dieta carnea» (ibid., pp. 771-76), il che ci indica ancora una volta che siamo al di là del bene e del male, e che in questi riti di guerra (distruttori) operano tutti i dispositivi comuni all’arte di guarire (riparatori). Géza Róheim ci segnala molti fatti simili nel suo capitolo The Medicine-Man and the Art of Healing , in Animism, Magic, and the Divine King (1930), Routledge & Kegan Paul, London 1972 [trad. it. Il medicine-man e l’arte di guarire, in Animismo, magia e il Re divino, Astrolabio, Roma 1975, pp. 115-16].

256. Frazer, The Golden Bough cit. [Il brano non è incluso nella trad. it. cit. (N. d. T.)].

lunedì 23 giugno 2014

Cinema in nuce. Il cortometraggio secondo Mathieu Kassovitz



Autore di quel capolavoro che è L’odio (1995), Mathieu Kassovitz è stato senza alcun dubbio il cineasta che, meglio di chiunque altro, è riuscito a identificare quella voglia/necessità di rottura del cinema francese degli anni Novanta nei confronti dei maestri della Nouvelle Vague. Il suo cinema è fatto essenzialmente di libertà, ed è vero, anche quello dei vari Truffaut, Godard e Rohmer lo era, ma quella di Kassovitz è di certo una libertà del tutto nuova e - ciò che conta di più - sinceramente depurata da ogni incrostazione dogmatica. Realizzare un film come L’odio alla precisa metà dei Novanta, è appunto sentire l’esigenza, prima di ogni cosa, di nuove forme di libertà espressiva. È scrollarsi di dosso il peso di certo cinema pieno di principi e assiomi, ma soprattutto è tentare di liberarsi di un cinema che deve essere ad ogni costo Arte. Raccontare raccontando il raccontarsi, parlare cioè della vita di tutti i giorni e della tristezza che la popola, parlare della vita di tutti i giorni e della (misera) felicità che la anima; il cinema di Kassovitz è fondamentalmente questo. Va da sé che quell’Arte, prima o poi, apparirà di sua spontanea volontà. Affrontando questo suo cinema però, ci si accorge che troppo spesso si prende come “rivoluzione copernicana”, come punto di partenza imprescindibile, sempre e solo quello straordinario film del 1995. Per carità, è cosa assai buona e giusta, è bene però non dimenticarsi che Kassovitz aveva già precedentemente mostrato quasi tutte le sue risolutezze e le sue qualità, facendolo in alcuni casi in maniera - per modi e atteggiamenti - già molto vicina a quella de L’odio. Ci riferiamo in particolare a quel periodo che va dal 1990 al 1992, nel quale il regista francese realizza tre cortometraggi che tantissimo anticipano di quelle che saranno successivamente le zone più splendenti nelle quali il suo cinema andrà ad abitare. I tre corti in questione sono: Fierrot le pou (1990), Cauchemar blanc (1991) e Assassins (1992).

In Fierrot le pou si gioca con un ribaltamento. Più precisamente si traccheggia con l’idea di ribaltamento, quel ribaltamento che Godard applica in Pierrot le fou (1965) al concetto di cinema di genere; un ribaltamento che porta l’apparenza del genere - del suo farsi contenere in dei ben definiti confini - a capovolgersi e a trovarsi quindi continuamente al di fuori di essi. La comicità fluttuante di Fierrot le pou, in particolare, è ciò che funziona come macchina ribaltante. È appunto, quella messa in scena da Kassovitz, una comicità prima di tutto rivolta alla concretizzazione del riso, ma di un riso bergsonianamente inteso. Il filosofo francese sosteneva infatti che noi ”ridiamo tutte le volte che una persona ci dà l'impressione di una cosa”. Noi ridiamo perché Fierrot ci dà l’impressione di essere un giocatore di basket, ridiamo perché ci dà l’impressione di voler apparire un giocatore di colore, ridiamo perché ci dà l’impressione di voler essere una specie di latin lover, inoltre ridiamo perché il film stesso ci dà l’impressione di essere un film di Godard appena ne leggiamo il titolo. Un condensato di cose in potenza che non si attuano perché rimangono nella loro forma incompiuta. E incompiuto risulta anche il gesto finale di Fierrot, che lancia la palla con la quasi certezza che si infilerà nel canestro, ma che invece andrà a bloccarsi tra il tabellone e il ferro in un tripudio di schiamazzi, lasciando aperta ancora una volta la via della beffa.

Il ribaltamento di Cauchemar blanc invece, è evidentissimo nella realtà che si propone prepotente dopo il sogno di uno dei protagonisti. Quella che era apparsa una vicenda assai rocambolesca, dove a un gruppo di razzisti che vuole eliminare un uomo arabo accadono appunto cose al limite del verosimile, si trasforma, nell’ultima sequenza, in qualcosa che diviene specchio-coscienza dell’evento reale: “specchio” perché avvenimento, nella sua macroforma, estremamente simile a quello che avverrà successivamente fuori dal sogno e “coscienza” in quanto oggetto che si pone come disturbo e ostacolo di quel peso morale che attraverserà violentemente la staticità dell’ultima inquadratura, quella con il corpo dell’arabo a terra e senza vita. Nella più totale indifferenza degli abitanti delle palazzine (o meglio, quasi per metonimia, nelle palazzine stesse) che circondano il luogo del delitto, troviamo addirittura il fulcro stesso del ribaltamento, strategicamente posto in maniera sagace nel finale: l’orda accusatoria di persone presente nel sogno è stata infatti sostituita nella cruda realtà da una non-presenza ben più asfissiante; quella del distacco, della distanza e del disinteresse.

In Assassins, dove un killer insegna il suo “mestiere” al fratello più piccolo, tutta la forza della farsa viene impressa nella frase mostrataci all’inizio del corto: “Mieux vaut aller hériter a la poste… Qu’aller à la postérité”. Come dire: “è molto meglio accontentarsi sempre di quel che si ha”. In realtà Assassins svuota un po’ il campo dell’ironia e comincia a popolare quello del cinismo; non che nei due corti precedenti non ce ne fosse stato, ma qui ci sembra ben più pulsante e indicato. Non c’è ossessione alcuna per l’omicidio da parte dei due assassini, come non c’è volontà in Kassovitz di essere didattico. La vita è quello che è, o si sopravvive o si muore e tutto sommato qualsiasi lavoro è un buon lavoro, purché ci si abitui a svolgerne le mansioni. Assassins condensa dunque con adeguata forza già tutto quel discorso che verrà fuori completamente cinque anni più tardi con la sua estensione in lungometraggio Assassin(s) (1997), ma con la s finale fuori dalla parentesi, quasi a voler sottolineare che forse lì, nel primo lavoro, gli assassini sono effettivamente in due, mentre nell’opera successiva si può anche avere qualche dubbio che uno dei due lo sia. È il cinema kassovitziano in nuce.

E allora cosa abbiamo in definitiva di fronte ai nostri occhi? Abbiamo tre cortometraggi che già imprimono nelle menti degli spettatori la rivoluzione che verrà. Tre cortometraggi di forza crescente, che si mostrano già come sintesi perfetta di tutto ciò che il cinema di Kassovitz sarà successivamente.

Al festival di Cannes del 1995 Kassovitz dichiarava: “se la gente si fa commuovere di più dal cinema che dalla realtà, vuol dire che preferisce il ‘confort’ alla rivoluzione. Non bisogna sopravvalutare il cinema: rimane entertainment e basta; il cinema è un’industria e non un’arte”[1]. Tenendo conto di tutto quello che fino a quel momento Kassovitz aveva realizzato nella sua carriera, il nostro Mathieu confermava una grande verità: i registi sono tutti dei gran bugiardi.

Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 38, marzo-aprile 2013.


[1] Mathieu Kassovitz in France noir. Guida al nuovo cinema di genere francese, “Nocturno Dossier” n. 46, 2006, p. 15.

venerdì 13 giugno 2014

Anti-Dada! Super Dada!




Di occhio in occhio, di spostamento in spostamento. Stan Vanderbeek si contrae per neo-dadaizzare la sua satira nei confronti del conformismo e della società di massa. Apri la testa a Freud come se fosse un melone? Niente paura: è la scienza dell'attrito a salvare le sue teorie, a far sì che non vadano disperse. Esse, d'altronde, fanno un grande collage di Es, Io e Super io, di Edipo e non-Edipo. Ma i veri problemi dell'umanità sono i cerchi concentrici e i televisori che li trasmettono, non certo le teorie freudiane. Ma anche i missili nucleari che da lì provengono (dalle teorie freudiane o dai televisori?). È la macchina spaziale, è la serie di volti, è l'America che ride, è l'arte nello spazio, è un gatto reso razzo. È il mondo a testa in giù che frigge come un uovo e non c'è più!



sabato 31 maggio 2014

Fuga mundi / Creatio mundi




"La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. Si può accettare questa definizione, anche se, a ben guardare, tutte le civiltà sono state civiltà delle immagini. Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’oeil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l’invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali. [...] Il fatto che, per esempio, mettendoci una cuffia oculare (eye-phone), infilandoci un guanto intelligente (data-glove) e indossando una tuta intelligente (data-suit), siamo in grado di entrare in una realtà illusoria e viverla come se fosse reale (o quasi), è un passo evidente in questo senso. Ora siamo in condizione di perlustrare dall’interno una realtà che è la controfigura della nostra. Il che sarebbe, in pratica, come proiettarsi dentro un videogame, E ciò senza rischio alcuno per noi stessi, in quanto la nostra azione in tale spazio si compirebbe solo con la vicaria complicità di un nostro sosia, di un alter ego digitale.

Ma nel caso in cui il videogame sia un wargame, questa presenza-assenza dell’operatore può avere impieghi tutt’altro che ludici. Esempi premonitori di tali impieghi li abbiamo intravisti in alcuni dei congegni adoperati nella guerra del Golfo (1991), congegni che, seppur in modo ancora incipiente, si sono avvalsi di tecniche informatiche atte a consentire la presenza-assenza dell’operatore. E' nata così la famigerata guerra pulita. Pulita di sicuro per l’utilizzatore di questi congegni (oppure per gli spettatori televisivi), terribilmente sporca invece per chi ne ha dovuto soffrire gli effetti, ossia per le vittime tra la popolazione civile.

È giusto sostenere che l’emergente cultura della virtualità (o, se mi si consente, dell’ipervirtualità) debba prefigurare sempre e comunque una sorta di irreversibile straniamento nel nostro rapporto con il mondo reale? In altri termini: è corretto escludere, in linea di principio, che la frequentazione delle realtà virtuali sia in grado di contribuire a un arricchimento, e non sempre a un impoverimento, del nostro rapporto conoscitivo e in ultima analisi operativo con il mondo reale?

Si tratta, in sostanza, di sapere se la produzione computazionale di immagini ad altissima fedeltà, ossia le pratiche e i prodotti dell’attività eidomatica, siano veramente in grado di arricchire la nostra esperienza, anzi di fornirci più esperienza di quella che noi avremmo potuto raccogliere, senza la mediazione dell’immaginale, in un rapporto, diciamo, empirico con la realtà. La questione sollevata concerne ciò che è stato chiamato il «valore conoscitivo dell’immaginale». È una questione che va ben oltre il particolare genere di immagini che stiamo qui esaminando, giacché riguarda tutto l’universo delle immagini illusorie. È evidente però che le immagini computazionali ad altissima fedeltà, così come tutti gli altri «fantasmi di veglia», non possono essere equiparate alle immagini sognate. La loro somiglianza è molto remota. Alla domanda: «Le realtà virtuali sono esperienze?», io non esiterei a rispondere affermativamente. Sono consapevole che, così facendo, mi espongo all’accusa di flagrante contraddizione nel mio modo di trattare l’argomento. Da un lato, denuncio il fatto che, a parer mio, le realtà virtuali ci allontanano dall’esperienza; dall’altro, sono disposto ad ammettere che esse cadono, per dirla con le medesime parole di Dennett, all’interno e non fuori dei confini dell’esperienza. E' vero, i due assunti non collimano tra loro. Si dimentica però che la contraddizione è nello stesso oggetto esaminato.

Vi è infatti un’ambivalenza di fondo nelle realtà virtuali. Anzi, in tutta la cultura della virtualità. Si tratta però di un’ambivalenza con la quale noi dobbiamo fare i conti se vogliamo (come vogliamo) resistere alla tentazione di interpretare unilateralmente il fenomeno. Anche a prezzo di dover ammettere una certa ambivalenza nell’impianto logico della nostra stessa trattazione. Sul perché io ritengo che le realtà virtuali favoriscano il nostro straniamento dalla realtà, credo di essermi soffermato a lungo, e di avere apportato, penso, alcune buone ragioni a sostegno della mia tesi. Vorrei ora discutere i motivi per i quali, nello stesso tempo, si può ritenere che, in determinati contesti, esse possano avere un indubbio valore conoscitivo. [...] Prendiamo ora in esame un settore in cui il ricorso alle immagini virtuali è molto significativo. Mi riferisco a quel settore che, per intenderci, chiamerò «artistico». Un settore che per la sua vivacità, tenacia e intraprendenza sperimentale, si configura ormai come uno dei punti di riferimento forti nello sfruttamento del potenziale creativo della virtualità. Infatti, esso appare come uno dei principali fattori propellenti, a livello di divulgazione pubblica, di questa tematica. Fino al punto che le realtà virtuali vengono di solito identificate come qualcosa che riguarda esclusivamente il mondo dell’arte. Abbiamo illustrato, in diversi passaggi di questo testo, che non è così, che il fenomeno investe certo l’arte, ma anche molte altre sfere della nostra cultura. Non è neppure vero, come taluni sostengono, con il malcelato proposito di relativizzarlo (e banalizzarlo), che il fenomeno abbia attinenza soltanto con i videogames. Ferma restando l’infondatezza di tali (e altre simili) valutazioni, è indubbio che il rapporto arte-virtualità è un fatto di estremo interesse. Non si tratta di un evento fortuito o marginale, ma costituisce, a ben guardare, uno sbocco assai promettente al ricco ventaglio delle tendenze (e intuizioni) che si sono manifestate nel panorama dell’arte negli ultimi cinquantanni. Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che siamo di fronte all’emergere di una inedita prospettiva di ricerca in cui tutte le tendenze, senza offuscare ovviamente le proprie peculiarità, potranno convergere.

Con la benevolenza dei critici d’arte (che non do per scontata), vorrei azzardare alcune riflessioni in proposito. Esaminando il variopinto universo artistico dall'ultimo dopoguerra in poi, mi ha sempre colpito il fatto che ci sono alcuni pochi nuclei, peraltro assai costanti, intorno ai quali si possono raggruppare le diverse tendenze. Vi è, per esempio, il nucleo del non-figurativismo (astrattismo, concretismo, op art, espressionismo astratto ecc.), il nucleo performativo (happening, arte concettuale, land art, minimal art ecc.), il nucleo dell'immagine programmata (arte programmata, arte cinetica, videoarte, computer art ecc.), il nucleo del realismo (neorealismo, iperrealismo ecc.). Sono consapevole dei rischi insiti in ogni classificazione, in ispecie in quella artistica. Gli esperti potranno contestare totalmente o parzialmente questa mia classificazione, ma io sono persuaso che essa descrive, con ragionevole approssimazione, alcuni orientamenti effettivamente riscontrabili nel periodo storico esaminato. Al mio scopo, questo è più che sufficiente. Ciò che mi interessa constatare è che ognuno di questi raggruppamenti può trovare adesso nelle realtà virtuali (intese in senso forte o debole), una conferma clamorosa dei rispettivi programmi e presupposti. Un nuovo eclettismo? Non direi. Mi pare che si stia avverando una situazione di tutt’altro tenore. E cioè: che diverse tendenze artistiche, pur con visioni contrapposte, si stiano ora aggregando intorno al medesimo serbatoio di tecniche - tecniche di produzione iconiche informatiche - dal quale ognuna di esse spera di potersi rifornire. Senza con ciò tradire le loro originarie matrici programmatiche. Il che non esclude, sia chiaro, che talvolta si possano dare, come sempre di più accade, vere e proprie convergenze di interessi creativi tanto nella concezione quanto nella produzione delle diverse opere.

Se questa direttrice di marcia si confermasse, non è da escludere che, prima o poi, si possa verificare una svolta di vasta portata nella storia delle avanguardie artistiche. Senza voler sminuire il loro in-dubbio contributo all’arricchimento della cultura contemporanea, mi sembra di poter dire che i risultati sinora raggiunti non sono stati all’altezza delle loro poetiche. Le cause vanno ricercate nel fatto che molti degli affascinanti scenari prospettati da quelle poetiche, privi dei mezzi tecnici per essere realizzati, hanno assunto il carattere di ingegnose scaramucce, di provocatori assaggi in preparazione di qualcosa che doveva arrivare. E che poi non è arrivato. Inoltre, il prezzo pagato per l’allontanamento dell’arte dal mondo della scienza è stato molto alto. Perché si dimentica spesso che, se da un lato la laicizzazione dell’arte ha consentito di vanificare (o più cautamente: di rendere meno esplicito) il legame di sudditanza che, nel bene o nel male, aveva avuto da sempre con il potere-committente, dall’altro lato la stessa laicizzazione ha nullificato, per motivi molto più complessi, il fecondo rapporto esistente, anche questo da sempre, tra la produzione artistica e quella scientifica. Quest’ultimo aspetto della laicizzazione ha avuto, ritengo, effetti perversi sullo sviluppo delle arti visive contemporanee.

Ci sono tuttavia fondati motivi per credere che le cose stiano cambiando. Verosimilmente, gli ultimi, eclatanti progressi nella produzione di immagini di sintesi, progressi che riguardano le scienze e le tecnologie informatiche (ma non solo esse), possono favorire, almeno in linea teorica, un risanamento della spaccatura tra arte e scienza. Senza voler correre troppo con i futuribili, di solito tanto suggestivi quanto ingannevoli, si può comunque ipotizzare che da tale ravvicinamento potranno trarre indubbi vantaggi tutti coloro che sono impegnati nella sperimentazione artistica e comunicativa. Sempre in linea teorica, si può congetturare che le diverse poetiche, anche quelle in apparenza più chimeriche, forse troveranno finalmente i mezzi produttivi all’altezza delle loro intuizioni. Dipenderà quindi da noi se, nel futuro, vorremo fare di questi mezzi, in nome di una ideologia della dematerializzazione universale, un uso alienante, oppure farne invece, come io ritengo che si dovrebbe, un uso che sfrutti al massimo il formidabile potenziale di interfaccia conoscitiva, progettuale e creativa dell’uomo con il mondo. Non una fuga mundi, ma una creatio mundi".



Tratto da: Tomás Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992.

martedì 20 maggio 2014

Appunti sparsi su un film disperso



Romano Scavolini, ovvero: il cinema contestatore. Contestare il cinema per contestare, di rimando, la società che lo produce. Destrutturare è per Scavolini la parola d’ordine. Fare in modo che il supporto (lo schermo) si eclissi - permettere cioè allo spettatore di immedesimarsi completamente con ciò che viene proiettato su quello stesso supporto - è qualcosa contro cui egli sente una necessità assoluta di lottare. Ma il supporto cinematografico, soprattutto per questa ragione, è per Romano Scavolini (in particolar modo negli anni Sessanta, non a caso è questo il periodo della sua carriera che più ci interessa) un oggetto estremamente indispensabile: è l’unico strumento con il quale poter allontanare dal mondo l’uomo, creando in lui un’immunità all’empatia e al coinvolgimento. Trasformare la sua identità, rendendola possente e libera dai possibili nocivi condizionamenti esterni, diviene così un obbiettivo primario.

Ricordati di Haron 

A mosca Cieca (1966), il suo primo lungometraggio, è un film che concretizza tutto ciò, un film che sposta l’asse della “vera” narrazione in un spazio che non ci è dato conoscere. Il racconto però è qualcosa che nonostante tutto percepiamo, ma è una percezione di tipo “presente-altrove”; una vera e propria entità che si manifesta nello stesso modo mistico di un’immagine ascoltata o di un suono visto. A mosca cieca è l’istante infinito mai risolto.

Che farei senza questo mondo, senza faccia, né domande

Esiste un film? La sua presenza è qualcosa di effettivamente rilevabile dal mondo oppure è la nostra percezione dello stesso a renderlo esistente? Esso esiste perché lo comprendiamo dentro di noi e lo rendiamo qualcosa di presente? Esiste allora un film fuori di noi? Esiste cioè un film lì, dove si trova, senza che ci sia almeno un essere umano a farlo suo? Esisterebbe dunque un film senza questo mondo? Ma soprattutto: esisterei io senza il mondo (il cinema, ma estesamente l’arte) dentro al mondo? Una volta realizzato, un film, è un oggetto rinnovato, che non assomiglia assolutamente a niente di ciò che (non) era prima: somma delle parti diventa parte di un nuovo tutto. O forse il film è già nelle cose di cui è composto e che sono state riprese cinematograficamente per realizzarlo? Senza questo mondo, senza faccia, né domande non farei cinema.

Verso l’amore 

Una cosa è certa: le immagini ci fanno sopravvivere. Una qualsiasi persona che abbia assaporato - anche per una sola volta nella propria vita - un’immagine, non può più vivere senza. Non può più vivere dell’/nell’immagine, perché l’occhio è la proiezione di essa e senza l’occhio non si vive. Perlomeno nel mondo dell’amore per le immagini.

Ascolta

“Stavo leggendo, ho fatto tardi.

- Cosa?

- Sulla matematica: cinque è vittima di sei, ma è carnefice di quattro. Ogni numero - tu puoi formulare qualsiasi cifra - è carnefice del numero che lo precede, ma è vittima di chi lo segue.

- Ma l’uno?

- Il primo è sempre una vittima; tutti i primi. Sono stati sempre vittime, in tutte le cose.

- Ma possiamo diventare i primi?

- Certo, sempre.

- Ma come? Quando?

- Non lo so esattamente. Ma ogni volta che agisci, penso. E poi: quando in un certo senso ti esponi”.

Mio padre

In un film, le figure paterne acquistano spropositatamente un valore simbolico. Sparare a un padre è come parlare allo spettatore attraverso un personaggio del film. Sparare a un padre è tradire un legame. Parlare a uno spettatore da uno schermo, rivolgendosi direttamente a lui, è anch’esso un tradimento. È spezzare la finzione e far dialogare il cinema con ciò che è fuori da esso, ma in un modo estremamente dittatoriale, perché a parlare sarebbe solo il cinema, o meglio ad ascoltare sarebbe solo lo spettatore. Sparare a un padre in un film è come sparare a uno spettatore nel mondo reale, con una sola differenza: il padre, se rapido e se in possesso di un’arma, potrebbe rispondere al fuoco, lo spettatore mai riuscirebbe a farlo.

Amico!

O come sparare ad un amico!

La morte

La morte nel cinema è un concetto difficilmente inquadrabile. Poniamo che io mi riprenda con una cinepresa. Nel momento in cui lo faccio, improvvisamente, muoio. Ciò che vedrò successivamente - una volta sviluppato il film - è la mia morte. Ma che morte è? Una morte trasparente. Sono realmente morto o ho finto di morire? La questione principale è che l’immagine cinematografica nasce assieme alla morte. Anzi: l’immagine cinematografica nasce dal bisogno di eliminare la morte. Una morte filmata - che sia reale o fittizia - non è morte, perché ogni volta che la proietto vive. Vive di morte. Forse dobbiamo mettere da parte per un attimo il cinema e riflettere sulla genesi di tutte le immagini: “La nascita dell’immagine è strettamente connessa alla morte. Ma se l’immagine arcaica scaturisce dalle tombe, è per un rifiuto del nulla e per prolungare la vita […] Ne consegue che più si cancella la morte dalla vita sociale, meno viva è l’immagine, e meno vitale risulta il nostro bisogno d’immagini”[1]. Più morte = più cinema.

Immobile - Essere soli - Essere sconfitti - Mai

La proto-commedia all’italiana dei Settanta è tutta qui: Laura Troschel e Pippo Franco. Non è mai l’inizio - Non è mai la fine.

Fine 

Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 37, dicembre-gennaio 2013.



[1] Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 1999, p. 19.

giovedì 15 maggio 2014

Sì, viaggiare


Viaggiare, ritrovarsi dove non si vorrebbe mai essere. Bussare a una porta. Aprire/farsi aprire una porta. Incontrare ciò che più ci spaventa: noi a testa in giù. La giungla è uno spazio dove la legge non si ribalta quasi mai, soprattutto se si è prede. "Questa è la legge della giungla. Vecchia e vera come il cielo", sosteneva Kipling. Ma se si è cacciatori e poi si diventa prede, la legge della giungla può rischiare di vedere sconvolti i propri dogmi.

Il gioco allora può divenire davvero pericoloso; "Kill, then love!", sostiene con veemenza Zaroff. L'amore che fa dell'uomo la preda, sempre e comunque. Ma vivere da cacciatori è più facile che vivere da prede? Domanda a cui è assai arduo rispondere. Certo, con un'arma tra le proprie mani - che sia anche un'arma-metafora - le cose appaiono sempre più semplici. Ma se quell'arma dovesse caderti di mano e far partire accidentalmente un colpo in direzione della tua fronte - così spaziosa e già solcata da una profonda ferita che doveva esserti da monito sulla pericolosità del mondo selvaggio della caccia, un avvertimento insomma su come le prede possano trasformarsi in cacciatori - allora cosa faresti? Te lo dico io: non muoveresti un dito. Sarebbe troppo tardi. Saresti morto.

La porta, a quel punto, si chiuderebbe. E non potresti più riaprirla o farla riaprire.
I giochi, quando sono pericolosi, non andrebbero giocati.
Mai.

martedì 13 maggio 2014

Preveggenze




"Le nostre belle arti sono state istituite - e i loro caratteri e il loro uso fissati - in un tempo molto diverso dal nostro, da uomini il cui potere d’azione sulle cose era insignificante in confronto a quello che possediamo noi. Ma il sorprendente sviluppo dei nostri mezzi, la duttilità e la precisione che hanno raggiunto, le idee e le abitudini che hanno introdotto ci garantiscono cambiamenti imminenti e assai profondi nell’antica industria del bello. Vi è in tutte le arti una parte fisica che non può più essere considerata e trattata come si è fatto finora, che non può prescindere dalle realizzazioni della conoscenza e delle capacità moderne. Né la materia, né lo spazio, né il tempo sono da vent’anni ciò che erano sempre stati. Bisogna aspettarsi che novità così grandi trasformino completamente la tecnica delle arti, agiscano con essa sulla stessa invenzione, giungano forse a modificare meravigliosamente anche la nozione di arte.  
 Sicuramente saranno dapprima solo la riproduzione e la trasmissione delle opere a vedersi coinvolte. Saremo in grado di trasportare o ricostituire in qualsiasi luogo il sistema di sensazioni, - o più esattamente, il sistema di eccitazioni, - che emana in un luogo qualunque un oggetto o un avvenimento qualunque. Le opere acquisteranno una sorta di ubiquità. La loro presenza immediata o la loro restituzione a qualsiasi epoca obbediranno al nostro richiamo. Non esisteranno più solo in se stesse, ma ovunque ci sarà qualcuno, e qualche strumento. Saranno solo una sorta di fonti o di origini, e i loro benefici si troveranno o si ritroveranno interi dove si vorrà. Come l’acqua, il gas, la corrente elettrica giungono da lontano nelle nostre case per rispondere ai nostri bisogni con uno sforzo quasi nullo, così saremo alimentati da immagini visive o uditive, che appariranno e spariranno al minimo gesto, quasi a un cenno. Come siamo abituati, se non assoggettati, a ricevere nelle nostre case l’energia in forme diverse, così troveremo assai semplice ottenere o ricevere quelle variazioni o oscillazioni rapidissime con cui gli organi dei nostri sensi, che le percepiscono e le integrano, fanno tutto ciò che sappiamo. Non so se un filosofo abbia mai sognato una società per la distribuzione della realtà sensibile a domicilio.      

 La musica, tra tutte le arti, è la più vicina a essere trasmessa in maniera moderna. La sua natura e il posto che occupa nel mondo la designano a essere modificata per prima nelle sue forme di distribuzione, di riproduzione e anche di produzione. Essa è, tra tutte le arti, la più richiesta, la più inserita nella realtà sociale, la più vicina alla vita, di cui anima, accompagna o imita il funzionamento organico. Che si tratti dell’andamento o della parola, dell’attesa o dell’azione, della regola o delle sorprese della nostra durata, essa sa carpirne, combinarne, trasfigurarne gli aspetti e i valori sensibili. Tesse per noi un tempo di vita posticcia, sfiorando gli aspetti di quella vera. Ci abituiamo, ci affidiamo a lei con delizia come alle sostanze giuste, potenti e sottili che vantava Thomas de Quincey. Poiché essa se la prende direttamente con la meccanica affettiva di cui si serve e che manovra a suo piacere, è per sua natura universale; affascina, fa danzare su tutta la terra. Come la scienza, diventa bisogno e derrata internazionale. Questa circostanza, unita ai recenti progressi nei mezzi di trasmissione, poneva due problemi tecnici:       

I.    Fare ascoltare in un punto qualunque del globo, nello stesso istante, un’opera musicale eseguita non importa dove.  
II.    In un punto qualunque del globo, in qualsiasi momento, riprodurre a volontà un’opera musicale.       

Questi problemi sono stati risolti. Le soluzioni si fanno ogni giorno più perfette.    Siamo ancora abbastanza lontani dall’aver addomesticato così i fenomeni visibili. Il colore e il rilievo sono ancora piuttosto ribelli. Un sole che tramonta sul Pacifico, un Tiziano che si trova a Madrid non possono ancora essere dipinti sul muro della nostra camera con la forza e l’illusione con cui riceviamo una sinfonia.  
Questo si farà. Forse faranno ancora meglio, e sapranno farci vedere qualcosa di ciò che è in fondo al mare. Ma per quanto riguarda l’universo dell’udito, i suoni, i rumori, le voci, i timbri ormai ci appartengono. Possiamo evocarli quando e dove vogliamo. Poco tempo fa non ci era possibile godere della musica quando e come volevamo. Il nostro godimento doveva adeguarsi a un’occasione, a un luogo, a una data e a un programma. Quante coincidenze erano necessarie! Adesso invece ci siamo liberati da una schiavitù così contraria al piacere, e perciò così contraria alla più squisita intelligenza delle opere. Poter scegliere il momento di un godimento, poterlo gustare quando non solo è desiderato dallo spirito, ma anche preteso e quasi già prefigurato dall’anima e dall’essere, equivale a offrire le maggiori possibilità alle intenzioni del compositore, perché significa permettere alle sue creature di rivivere in un ambiente vivo ben poco diverso da quello della loro creazione. Il lavoro dell’artista musicista, autore o virtuoso, trova nella musica registrata la condizione essenziale di un rendimento estetico altissimo.       

Mi viene ora in mente uno spettacolo di fantasia che ho visto da bambino in un teatro straniero. O che credo di aver visto. Nel palazzo del mago, i mobili parlavano, cantavano, sottraevano all’azione una parte poetica e canzonatoria. Una porta che si apriva suonava una fanfara esile o pomposa. Non ci si poteva sedere su un pouf senza che quello, schiacciato, non gemesse qualche parolina gentile. Ogni cosa, appena sfiorata, emanava una melodia.    Spero bene che non si arriverà a questi eccessi di magia sonora. Già non si può più mangiare o bere in un caffè senza essere disturbati da concerti. Ma sarà meravigliosamente dolce poter trasformare a piacere un’ora vuota, una serata interminabile, una domenica che non finisce mai, in malie, in tenerezze, in moti interiori dello spirito. Ci sono giornate tetre; persone molto sole, e manca solo che l’età o l’infermità le costringano in se stesse perché ne soffrano anche troppo. Questi vani e tristi lunghi momenti, e questi esseri votati agli sbadigli e ai pensieri tristi, eccoli ora in grado di dare ornamento o passione al loro vuoto.       

Tali sono i primi frutti che ci propone la nuova intimità della musica con la fisica, la cui immemorabile alleanza già tanto ci aveva dato. Se ne vedranno ben altri".

Tratto da: Paul Valéry, Scritti sull’arte (1934), Tea, Milano 1984, pp. 107-109.

lunedì 12 maggio 2014

La bella e la bestia


La riflessione sulla centralità della simulazione attoriale è qualcosa che torna spesso e volentieri nelle tappe della teoria del cinema. Nel suo Lo specchio e il simulacro, ad esempio, Paolo Bertetto prende in considerazione una sequenza di King Kong (1933) di Cooper e Schoedsack[1]: è quella in cui l’attrice (protagonista del film d’avventura che dovrà essere girato sull’isola misteriosa) prova una scena nella quale deve simulare lo spavento di fronte a qualcosa di terribile e ignoto che in quel momento è solo immaginato. La recitazione della ragazza è la semplice ripetizione delle istruzioni del regista e ci fa comprendere come l’attore, nel cinema, sia spesso una materia da plasmare.

Bertetto scrive: “Nella simulazione davanti alla macchina da presa, l’attore delinea un tratto visibile, generalmente in movimento, che si stacca dall’attore e si fissa nella pellicola. La sua simulazione ha trovato una iscrizione oggettivata nel supporto e si è in un certo senso costituita come altro, fissando una configurazione visivo-dinamica per il film. L’inserimento della simulazione nel film, infatti, implica un’estraniazione della simulazione e una sua mascheratura […] Diversamente dall’esperienza teatrale, dove l’interpretazione dell’attore si realizza e si conclude ogni volta, nel cinema l’azione, che sembra più fragile, ed è sicuramente più frammentata e opinabile, diventa paradossalmente un’iscrizione permanente. Così mentre l’azione teatrale ha una temporalità interna e una esterna che finiscono con l’identificarsi, nel cinema la temporalità della simulazione e quella dell’apparente simulato, iscritto nel testo filmico, sono radicalmente diverse”[2]. È per questo che quando la nostra eroina incontrerà realmente King Kong le cose andranno diversamente; per noi spettatori del film - rispetto alla sequenza della prova - solo allora la simulazione diverrà effettiva finzione: in un certo senso, più vera del vero.


[1] Cfr. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano 2007, cap. 2.3. King Kong.
[2] Ibid., pp. 59-60.



sabato 10 maggio 2014

Colore, Spazio, Espressione. L'esemplarità di Soutine

Chaïm Soutine - Paesaggio a Cagnes (1922-23)
Nel 1923, Soutine, dopo un periodo trascorso a Céret, piccola cittadina ai piedi dei Pirenei orientali, si trasferisce di nuovo a Parigi[1]. Dall’anno successivo inizia a passare molto del suo tempo a Cagnes-sur-Mer; la città - che egli aveva già visitato occasionalmente nel 1918 e durante il periodo trascorso a Céret - diviene nuova fonte di ispirazione per il pittore lituano, dando una interessante possibilità di rinnovamento al suo stile già molto personale. Questo Paesaggio a Cagnes risulta in un certo modo emblematico per quanto riguarda questo suo intenso periodo.


1. Il colore

Di questo dipinto, la prima cosa a risaltare agli occhi è sicuramente il colore. Come nota Marco Vozza: “nella pittura di Soutine la visione del mondo non è mai astratta, tratteggiata dalla linea del disegno, ma incarnata nel colore, un colore capace di esprimere la drammaticità dell’emozione, la violenza dello sguardo, la ribellione della vita contro la forma, di assorbire tutta la luce del mondo e di farsi materia, densa sostanza dell’essere”[2]. Il colore in Soutine è dunque l’emozione. Tutto quanto dipenderà quindi dal colore più vivo, da quello più presente: esso diverrà una specie di linea guida per tutti gli altri.

Se a Céret era il rosso a dominare le sue tele, “un rosso caldo, denso come un sangue venoso, un rosso porpora che arde come per una febbre”[3], nel periodo di Cagnes ad avere la meglio è il verde, “un verde ora di muffe e ora di acute eccitazioni vegetali”[4]. Ed è un verde che prevale proprio nei paesaggi, un verde che diventa forma modellante, che avvolge - nel caso specifico di questo dipinto più che mai - le strutture e le figure presenti nella rappresentazione, rendendole oggetti alle volte al limite del distinguibile. Ma il verde resta il colore del totale rilassamento, e nell’istante in cui lo incontriamo con il nostro sguardo, proviamo un vero e proprio piacere liberatorio. Secondo Goethe, ad esempio: “in esso il nostro occhio trova un autentico appagamento”[5]. Dobbiamo inoltre ricordare che il verde è la risultante della combinazione tra gli altri due colori più presenti nel dipinto: il giallo e l’azzurro. Il primo è come stropicciato, compone per una buona parte la struttura dell’abitazione e a intermittenza lo troviamo anche tra la vegetazione. Sembra quasi assumere la funzione di punto di rottura, come se la forma potesse generarsi solo e unicamente attraverso le contrazioni delle sfumature dei suoi toni. Non è un caso comunque che esso sia il colore dell’abitazione: “è [...] conforme all’esperienza che il giallo produca un’impressione di calore e d’intimità [...] questo effetto di calore si avverte, nel modo più netto, se si guarda un paesaggio attraverso un vetro giallo, specialmente in grigie giornate d’inverno. L’occhio ne viene allietato, il cuore si allarga, l’animo si rasserena: un immediato calore ci prende”[6]. Il giallo diviene rifugio spirituale per colui che osserva, proprio come la casa lo è per colui che ci abita.

Poi c’è l’azzurro del cielo. Sempre Goethe ci fa notare come “questo colore esercita sull’occhio un’azione singolare e quasi inesprimibile. Come colore è un’energia e tuttavia, trovandosi dal lato negativo è per così dire, nella massima purezza, un nulla eccitante. Esso è, nell’aspetto, una contraddizione composta di eccitazione e di pace”[7]. È dunque un colore che pacifica, che rende una certa armonia al tutto e lo osserviamo volentieri “non perché ci aggredisce, ma perché ci attrae a sé”[8].

In definitiva, il colore di Paesaggio a Cagnes, è un colore armonico ma parecchio instabile, che definisce le forme in un modo a tratti nevrotico, che struttura ogni parte come se dovesse essercene una e una sola, che dona all’immagine una storpiatura che difficilmente può farci assaporare l’essenza del reale. Forse però riesce a fare molto di più: ci fa percepire la sostanza della suggestione e del turbamento, della commozione e dell’eccitazione, dell’incanto e della devozione. È pura emozione.


2. Lo spazio

“Nell’universo di Soutine si vive come su di un piano inclinato, privi di protezione, esposti come fruscelli alla furia dei venti che torcono gli alberi, in balìa di una forza centripeta che tutto travolge, anime, corpi e destini, come se il pittore volesse riversare sulla tela gli effetti della concezione einsteiniana della curvatura spazio-temporale”[9]. Quando si contempla questo Paesaggio a Cagnes, la sensazione è proprio quella che lo spazio si deformi perché il tempo si annulla.

In questa tipologia di paesaggi le distorsioni sembrano essere sempre dettate dai sentimenti che, per evadere in qualche modo a una plasticità troppo impostata e controllata, distruggono la complessiva unità compositiva[10]. In realtà, se riflettiamo attentamente su ciò che l’immagine ci trasmette, ci accorgiamo che non si tratta di una distruzione ma bensì di una ricostruzione. Il linguaggio compositivo di Soutine infatti, intende molto spesso lo spazio pittorico come se fosse una vera e propria forma ricostituente. Secondo Merleau-Ponty: “lo spazio non è l’ambito [...] in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni”[11]. È in un certo senso quello che troviamo in Paesaggio a Cagnes: lo spazio è un unicum che unifica ma soprattutto che si unisce, non contenendo forme al suo interno (non è un vuoto che si riempie, è al contrario un tutto già pieno) ma connettendo esso stesso le forme, che mutano a seconda della posizione che assumono. Lo spazio, in poche parole, non include le forme: lo spazio è la forma stessa. In questo essere forma dello spazio il dipinto trova le sembianze di un oggetto unico e universale; quella che ci viene proposta non è tanto la rappresentazione di una casa in mezzo a una folta vegetazione sotto un cielo azzurro, quanto la raffigurazione di un mondo solo e unico che non differenzia le sue singole componenti per il semplice fatto che esso è tutte le sue componenti. Quello che percepiamo attraverso la visione di quest’opera è l’espressione interiore di un uomo che cerca di riprodurre le manifestazioni delle sue sofferenze, e lo fa con un blocco unico che non ha parti ma ha solo un tutto. Soutine non riflette e vive nelle cose, considerando “vagamente lo spazio ora come l’ambito delle cose, ora come il loro attributo comune”[12], egli, al contrario, scopre “una capacità unica e indivisibile di descrivere lo spazio”[13]. Insomma, lo spazio-forma unico e indivisibile del dipinto corrisponde in qualche modo allo spazio unico e indivisibile dell’interiorità del pittore.


3. L’espressione

Il trasferimento dello spazio interiore del pittore sulla tela è il processo che sta alla base dell’espressione. Citando Argan: “espressione è il contrario di impressione. L’impressione è un moto dall’esterno all’interno: è la realtà (oggetto) che s’imprime nella coscienza (soggetto). L’espressione è un moto inverso, dall’interno all’esterno: è il soggetto che imprime di sé l’oggetto”[14].

La realtà è filtrata, è reinterpretata secondo quelle che sono le necessità emotive dell’artista: in questo specifico caso c’è una volontà distorcente derivata evidentemente da una profonda insofferenza. Secondo De Micheli, nel modo di vivere di Soutine “c’è l’eco della poetica di Rimbaud, in cui disperazione e protesta si fondono in una volontà autodistruttiva”[15]. Nel momento in cui vengono a mancare quelle che Rimbaud definiva “la fede e la forza sovrumana”, “l’artista diventa preda dei demoni che egli ha scatenato nella sua rivolta, e la sua malattia, il delirio, la follia, il patologico insomma diventano l’unico regno della sua libertà. Egli si trasforma in vittima della sua stessa rivolta [...] In Soutine [...] questa ‘fede’, questa ‘forza sovrumana’, in mezzo alla sregolatezza, sono ancora vive, ma si avverte qualcosa che le minaccia”[16]. Quel qualcosa si riversa prepotentemente sulla tela e mostra la vera essenza dell’anima dell’artista. Egli metabolizza in sé la realtà e la ripropone sogettivandone ogni aspetto. È l’espressione più autentica.

Paesaggio a Cagnes ci mostra tutte le caratteristiche dell’espressione soutiniana, facendo trasparire le emozioni e i vezzi più lampanti e consueti del pittore lituano: “egli dipinge d’istinto”[17] o forse è l’istinto che dipinge per lui. Anche se il tempo trascorso da Soutine a Cagnes sembra essere stato uno dei suoi più felici periodi, la sua necessità di trasmettere una sofferenza ben radicata e interiorizzata - forse anche per riuscire in qualche modo ad esorcizzarla - è evidente essere uno dei suoi più forti bisogni. Neppure il clima del Mediterraneo dunque pare sia riuscito a mitigare quella che più di ogni altra cosa ha regolato e calibrato, durante la sua intera esistenza, tutta l’arte di Soutine: l’ossessione per le sue stesse opere, “nelle quali riversa convulsamente le sue passioni, le sue invettive, i suoi presagi di disfacimento”[18].


[1] Il Nostro infatti, aveva vissuto a Parigi fin dal 1913, anno in cui si era stabilito dopo aver terminato gli studi all’Accademia di Belle Arti di Vilnius, una volta messi faticosamente da parte i soldi per il viaggio.
[2] Marco Vozza, Le forme del visibile – Filosofia e pittura da Cézanne a Bacon, Pendragon, Bologna 1999, p. 240.
[3] Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1988, p. 142.
[4] Ivi.
[5] Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, il Saggiatore, Milano 1993, p.196.
[6] Ibid., p. 191.
[7] Ibid., p. 193.
[8] Ivi.
[9] M. Vozza, Le forme del..., cit., p. 239.
[10] Cfr. Clement Greenberg, The collected essays and criticism, Volume 3 – Affirmations and refusals, 1950-56, The University of Chicago Press, Chicago 1995, p. 75.
[11] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Studi Bompiani, Milano 2003, pp. 326-27.
[12] Ibid., p. 327.
[13] Ivi.
[14] Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna, 1770-1970. L’Arte oltre il Duemila, Sansoni, Milano 2003, p. 117.
[15] M. De Micheli, Le avanguardie artistiche..., cit., p. 141.
[16] Ibid., p. 142.
[17] Ivi.
[18] Ivi.