lunedì 23 giugno 2014

Cinema in nuce. Il cortometraggio secondo Mathieu Kassovitz



Autore di quel capolavoro che è L’odio (1995), Mathieu Kassovitz è stato senza alcun dubbio il cineasta che, meglio di chiunque altro, è riuscito a identificare quella voglia/necessità di rottura del cinema francese degli anni Novanta nei confronti dei maestri della Nouvelle Vague. Il suo cinema è fatto essenzialmente di libertà, ed è vero, anche quello dei vari Truffaut, Godard e Rohmer lo era, ma quella di Kassovitz è di certo una libertà del tutto nuova e - ciò che conta di più - sinceramente depurata da ogni incrostazione dogmatica. Realizzare un film come L’odio alla precisa metà dei Novanta, è appunto sentire l’esigenza, prima di ogni cosa, di nuove forme di libertà espressiva. È scrollarsi di dosso il peso di certo cinema pieno di principi e assiomi, ma soprattutto è tentare di liberarsi di un cinema che deve essere ad ogni costo Arte. Raccontare raccontando il raccontarsi, parlare cioè della vita di tutti i giorni e della tristezza che la popola, parlare della vita di tutti i giorni e della (misera) felicità che la anima; il cinema di Kassovitz è fondamentalmente questo. Va da sé che quell’Arte, prima o poi, apparirà di sua spontanea volontà. Affrontando questo suo cinema però, ci si accorge che troppo spesso si prende come “rivoluzione copernicana”, come punto di partenza imprescindibile, sempre e solo quello straordinario film del 1995. Per carità, è cosa assai buona e giusta, è bene però non dimenticarsi che Kassovitz aveva già precedentemente mostrato quasi tutte le sue risolutezze e le sue qualità, facendolo in alcuni casi in maniera - per modi e atteggiamenti - già molto vicina a quella de L’odio. Ci riferiamo in particolare a quel periodo che va dal 1990 al 1992, nel quale il regista francese realizza tre cortometraggi che tantissimo anticipano di quelle che saranno successivamente le zone più splendenti nelle quali il suo cinema andrà ad abitare. I tre corti in questione sono: Fierrot le pou (1990), Cauchemar blanc (1991) e Assassins (1992).

In Fierrot le pou si gioca con un ribaltamento. Più precisamente si traccheggia con l’idea di ribaltamento, quel ribaltamento che Godard applica in Pierrot le fou (1965) al concetto di cinema di genere; un ribaltamento che porta l’apparenza del genere - del suo farsi contenere in dei ben definiti confini - a capovolgersi e a trovarsi quindi continuamente al di fuori di essi. La comicità fluttuante di Fierrot le pou, in particolare, è ciò che funziona come macchina ribaltante. È appunto, quella messa in scena da Kassovitz, una comicità prima di tutto rivolta alla concretizzazione del riso, ma di un riso bergsonianamente inteso. Il filosofo francese sosteneva infatti che noi ”ridiamo tutte le volte che una persona ci dà l'impressione di una cosa”. Noi ridiamo perché Fierrot ci dà l’impressione di essere un giocatore di basket, ridiamo perché ci dà l’impressione di voler apparire un giocatore di colore, ridiamo perché ci dà l’impressione di voler essere una specie di latin lover, inoltre ridiamo perché il film stesso ci dà l’impressione di essere un film di Godard appena ne leggiamo il titolo. Un condensato di cose in potenza che non si attuano perché rimangono nella loro forma incompiuta. E incompiuto risulta anche il gesto finale di Fierrot, che lancia la palla con la quasi certezza che si infilerà nel canestro, ma che invece andrà a bloccarsi tra il tabellone e il ferro in un tripudio di schiamazzi, lasciando aperta ancora una volta la via della beffa.

Il ribaltamento di Cauchemar blanc invece, è evidentissimo nella realtà che si propone prepotente dopo il sogno di uno dei protagonisti. Quella che era apparsa una vicenda assai rocambolesca, dove a un gruppo di razzisti che vuole eliminare un uomo arabo accadono appunto cose al limite del verosimile, si trasforma, nell’ultima sequenza, in qualcosa che diviene specchio-coscienza dell’evento reale: “specchio” perché avvenimento, nella sua macroforma, estremamente simile a quello che avverrà successivamente fuori dal sogno e “coscienza” in quanto oggetto che si pone come disturbo e ostacolo di quel peso morale che attraverserà violentemente la staticità dell’ultima inquadratura, quella con il corpo dell’arabo a terra e senza vita. Nella più totale indifferenza degli abitanti delle palazzine (o meglio, quasi per metonimia, nelle palazzine stesse) che circondano il luogo del delitto, troviamo addirittura il fulcro stesso del ribaltamento, strategicamente posto in maniera sagace nel finale: l’orda accusatoria di persone presente nel sogno è stata infatti sostituita nella cruda realtà da una non-presenza ben più asfissiante; quella del distacco, della distanza e del disinteresse.

In Assassins, dove un killer insegna il suo “mestiere” al fratello più piccolo, tutta la forza della farsa viene impressa nella frase mostrataci all’inizio del corto: “Mieux vaut aller hériter a la poste… Qu’aller à la postérité”. Come dire: “è molto meglio accontentarsi sempre di quel che si ha”. In realtà Assassins svuota un po’ il campo dell’ironia e comincia a popolare quello del cinismo; non che nei due corti precedenti non ce ne fosse stato, ma qui ci sembra ben più pulsante e indicato. Non c’è ossessione alcuna per l’omicidio da parte dei due assassini, come non c’è volontà in Kassovitz di essere didattico. La vita è quello che è, o si sopravvive o si muore e tutto sommato qualsiasi lavoro è un buon lavoro, purché ci si abitui a svolgerne le mansioni. Assassins condensa dunque con adeguata forza già tutto quel discorso che verrà fuori completamente cinque anni più tardi con la sua estensione in lungometraggio Assassin(s) (1997), ma con la s finale fuori dalla parentesi, quasi a voler sottolineare che forse lì, nel primo lavoro, gli assassini sono effettivamente in due, mentre nell’opera successiva si può anche avere qualche dubbio che uno dei due lo sia. È il cinema kassovitziano in nuce.

E allora cosa abbiamo in definitiva di fronte ai nostri occhi? Abbiamo tre cortometraggi che già imprimono nelle menti degli spettatori la rivoluzione che verrà. Tre cortometraggi di forza crescente, che si mostrano già come sintesi perfetta di tutto ciò che il cinema di Kassovitz sarà successivamente.

Al festival di Cannes del 1995 Kassovitz dichiarava: “se la gente si fa commuovere di più dal cinema che dalla realtà, vuol dire che preferisce il ‘confort’ alla rivoluzione. Non bisogna sopravvalutare il cinema: rimane entertainment e basta; il cinema è un’industria e non un’arte”[1]. Tenendo conto di tutto quello che fino a quel momento Kassovitz aveva realizzato nella sua carriera, il nostro Mathieu confermava una grande verità: i registi sono tutti dei gran bugiardi.

Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 38, marzo-aprile 2013.


[1] Mathieu Kassovitz in France noir. Guida al nuovo cinema di genere francese, “Nocturno Dossier” n. 46, 2006, p. 15.

venerdì 13 giugno 2014

Anti-Dada! Super Dada!




Di occhio in occhio, di spostamento in spostamento. Stan Vanderbeek si contrae per neo-dadaizzare la sua satira nei confronti del conformismo e della società di massa. Apri la testa a Freud come se fosse un melone? Niente paura: è la scienza dell'attrito a salvare le sue teorie, a far sì che non vadano disperse. Esse, d'altronde, fanno un grande collage di Es, Io e Super io, di Edipo e non-Edipo. Ma i veri problemi dell'umanità sono i cerchi concentrici e i televisori che li trasmettono, non certo le teorie freudiane. Ma anche i missili nucleari che da lì provengono (dalle teorie freudiane o dai televisori?). È la macchina spaziale, è la serie di volti, è l'America che ride, è l'arte nello spazio, è un gatto reso razzo. È il mondo a testa in giù che frigge come un uovo e non c'è più!