martedì 21 agosto 2018

E adesso che faccio?


 
Isidoro, detto Easy, è depresso, vive con la madre e passa le sue giornate a giocare con i videogiochi. È stato, giovanissimo, pluricampione di go-kart e sembrava avere una carriera assicurata in Formula 1. Poi, però, a un certo punto qualcosa l’ha bloccato, forse perché - come confessa a se stesso nei momenti di sconforto - non era abbastanza bravo. Un giorno suo fratello Filo gli chiede un favore: deve trasportare, in un piccolo paesino dell’Ucraina, una bara con dentro il corpo di un muratore morto in un incidente sul lavoro. È l’occasione giusta: Easy intraprenderà un viaggio che lo porterà soprattutto a conoscere meglio se stesso.
Un viaggio è sempre una storia vera, come ci insegna David Lynch. Una storia che ci dice solo verità, una storia che ci racconta un po’ tutto in rapporto a ciò che vogliamo sapere (cioè intesa anche come “l’intera storia”, in tutte le accezioni possibili del senso di una straight story, insomma). E un viaggio è naturalmente, oltre che una breve storia, qualcosa che ci illustra chiaramente il nostro grado di relazione con il mondo; questo, Easy lo inizia a comprendere fin da subito. Tenendo dunque conto della natura da road movie un po’ intimista, la cosa che colpisce di più del film di Andrea Magnani è come la posatezza e, per certi versi, l’eleganza della messa in scena, siano un qualcosa che si va formando pian piano che il film procede, che scorre, che, appunto, viaggia: un accumulo di piccoli dettagli che fanno del vagabondare di Isidoro e della sua condizione di trentenne disperato e perso nel vuoto, una situazione nella quale non è poi così facile identificarsi. Si configura quindi una commedia agrodolce, per asciuttezza quasi kaurismakiana, che delinea con grande sapienza una linea di demarcazione tra Easy e noi che lo osserviamo (non è un caso che la polarizzazione sia spesso spostata verso lo spettatore: egli conosce, della scena, più del protagonista, come quando i sottotitoli gli permettono di capire ciò che un personaggio ucraino sta dicendo). Ma è proprio questa la sua forza: una capacità di tenere ben serrato un distacco necessario a permetterci di poter osservare con più lucidità il mondo che Isidoro attraversa e che in qualche modo lo rispecchia; un’Ucraina post sovietica che riluce nella sua ruralità e il cui nome ha un preciso significato: “sul confine”. Un confine simile a quello sul quale si trova il nostro protagonista. E non stiamo parlando della dimensione geografica, ma bensì di quella esistenziale, che lo lascia in preda a un’incapacità di sostenere un futuro che si affaccia sì per tutti, ma che per lui è forse qualcosa di faticosamente sostenibile in quanto doppiamente sconosciuto. Perché una volta portata a termine la propria missione, il quesito che si pone è tra i più spietati dei nostri tempi: “e adesso che faccio?"

Pubblicato per la prima volta sul catalogo del festival Presente italiano 2017

 

martedì 14 agosto 2018

La sfiducia nell'immagine


In una Napoli rigida e glaciale, si dipanano le storie di due “amici di letto”, rappresentanti della nuova borghesia partenopea: il primo, Marco Macaluso, è un imprenditore cinico e senza scrupoli; la seconda, Lucia Sembiante, è una professoressa universitaria ninfomane, ma con un senso dell’etica ancora forte. Quando Lucia decide di sposarsi, incontrerà per l’ultima volta Marco, che con il suo addio la porrà di fronte alla possibilità di ribellarsi finalmente a un sistema corrotto e malsano. 
In La buona uscita c’è uno strano senso di sfiducia nell’immagine. Uno scetticismo nella rappresentazione del mondo che fa prediligere il linguaggio come primo veicolo di trasmissione di significati. Non è che la forma non abbia la sua forza, tutt’altro, ma appare come se fosse anestetizzata dalla parola. Parola che quindi in qualche modo si formalizza e si astrae nello spazio tra le immagini. La grandiosità di questo primo lungometraggio di Emilio Iannaccone sta infatti nella mancanza di connessione tra le frasi pronunciate per buona parte del film. Il suo discorso è creato senza ombra di dubbio dalla recitazione, che tritura molti registri espressivi, ma si compone come se volesse essere sempre la parodia di se stessa. Vengono in mente allora i formati post-postmoderni di quella comicità spesso rapida e indolore, di quel modo di atteggiarsi che porta la figura recitante allo stesso tempo lontana e vicina a ognuno dei possibili bersagli della sua spesso spietata ironia. Il personaggio di Marco Macaluso è infatti molte volte proprio questo: un tripudio di insignificanza che si erge a valore assoluto, una fuga continua da una realtà assemblata da fatti che non sussistono. La prima parte del film in questo senso è micidiale: ci troviamo sballottati da una scena all’altra senza comprendere il perché, senza capire le motivazioni che dovrebbero sostenere lo svolgere degli eventi. Quello di Iannaccone è un cinema che frantuma gli interstizi del vezzo attoriale all’italiana (e anche più specificamente, alla napoletana), ne fa una poltiglia e lo ripropone come materia nuova e nuovamente plasmabile. C’è sempre un eccesso, una sproporzione, un’abbondanza che trascina lo spettatore in una fruizione che è in parte godimento e in parte sofferenza per l’impossibilità di sbrogliare ogni gesto assaporato. Poi, però, avviene il miracolo: in equilibrio sul filo dell’antilinguaggio per buona parte del racconto (un antilinguaggio, lo ripetiamo, stracolmo di senso), il film si apre e lascia spazio a un vortice di nuove emotività e sensibilità, stavolta chiare e lampanti, tutte racchiuse nel personaggio sublime di Lucia Sembiante. E nella sua ultima parte, si esprime addirittura chiaramente, trasportando tutto ciò che aveva messo in scena fino a quel momento in un rinnovato spazio espressivo. Parlavo in apertura di sfiducia nell’immagine: mi ero sbagliato. La buona uscita è esso stesso l’immagine lucida di quella via minimale, ma illusoriamente astratta, che il cinema italiano oggi dovrebbe sempre avere il coraggio di percorrere.

Pubblicato per la prima volta sul catalogo del festival Presente Italiano 2016.

martedì 7 agosto 2018

Leggere le immagini #21 - Le immagini delle guerre contemporanee

"Qual è il nostro sguardo sulla guerra? In che modo i nuovi media hanno trasformato i conflitti e hanno mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici rispetto al XIX secolo? Che rapporto esiste tra la percezione (o la crescente anestesia) in relazione alla violenza bellica e i media che la mostrano (o la rimuovono)? Le guerre da sempre sono portatrici di violenza, sangue, morte; sono situazioni nelle quali prendono corpo di volta in volta modi concreti di intendere lo spazio politico, in cui si realizza uno specifico modo di vivere dell'uomo. A un secolo dallo scoppio della Prima guerra mondiale - la prima guerra fotografata in massa, in modo diffuso e dissonante -, a settant'anni dalla Liberazione e dalla chiusura dei campi di sterminio, questa raccolta di studi intende tornare a riflettere su alcuni momenti fondamentali di trasformazione della guerra all'interno della storia contemporanea, a partire dalle immagini cui tali eventi bellici sono connessi. Se le guerre sono i luoghi di esplosione della violenza pura, le immagini ci aiutano a capire se e come i paesaggi che hanno preso forma intorno al fuoco della guerra sono cambiati nel corso del tempo. Le immagini danno un volto alla guerra, indicano il senso (e l'assenza di senso) di un conflitto, in modo consapevole o meno sono prese di posizione politica nella storia".