martedì 22 luglio 2014

L'uomo che mangiava per uccidere meglio

Luciano Loatelli, "Metamorfosi", olio su tela


"La mia prima storia è ambientata in una foresta vergine spaventosa, dove signoreggia un piccolo falco dal becco rosso – in verità, un portentoso cacciatore. Ha la vista così acuta che, da un’altezza considerevole, riesce a distinguere un verme che striscia per terra, tra due foglie putrescenti; quindi, piomba su di lui e lo solleva in cielo, con una celerità e una precisione fulminanti.    Nella foresta di cui parlo, le qualità di questo piccolo rapace lo rendono qualcosa o qualcuno di simile a un dio. L’uomo che sopravvive in quello stesso luogo dimentica quasi di cacciare per sé: continua a guardare lo splendido uccello e resta per ore, con la faccia rivolta all’insù, gli occhi asciutti e brucianti, a contemplare la calma nobile e ipnotica delle sue planate concentriche, mentre questi spia o sceglie la sua preda; poi il tratto rosso del suo becco, che fende il cielo come se fosse il segno stesso – il segno acuminato, già sanguinante – della sua predazione magica.    L’uomo, ovviamente, invidia l’uccello. Lo ama e lo venera, ha il massimo rispetto per la sua capacità di vedere – di vedere e di cacciare così bene. Perciò diventa geloso, e inizia a odiare quel potere animale dello sguardo e la sua destrezza nell’arte di uccidere. Alla fine, come fanno quasi sempre gli uomini in situazioni del genere, lo ucciderà, approfittando di un istante in cui il piccolo falco stava divorando con gli occhi una marmotta impaurita. Dopo una lunga corsa tra il groviglio degli alberi, troverà il suo corpo per terra. Allora lo prenderà tra le mani, lo alzerà sopra il suo volto rovesciato all’insù, gli caverà gli occhi. E ne farà colare l’umor vitreo nei suoi, come se fosse un collirio. Poi riprenderà a cacciare, ormai certo che nulla potrà sfuggirgli.    Frazer, da cui prendiamo in prestito questa storia amazzonica, la chiama «magia omeopatica».(248) Quando afferma con sufficienza che «il selvaggio […] crede naturalmente di assorbire, con la sostanza materiale, una parte di divinità», senza dubbio semplifica.(249) Nonostante il lussureggiante colore locale, qui nulla può decidersi «naturalmente». Tuttavia, il commento di Frazer tocca un problema fondamentale dell’antropologia, e dell’estetica: quello dell’arte di incorporare, quando l’incorporazione tende ad aprire, o a far germogliare, la potenza – l’essenza, forse – magica dell’atto di somigliare . Ovviamente, scorgiamo l’enunciato del più antico adagio che muove la medicina: similia similibus curantur, le cose simili possono essere guarite solo da cose simili…(250) Ma possiamo anche definirlo un imperativo immaginario,
che, letteralmente, costringe l’uomo a mangiare ciò a cui vuole somigliare, o a mangiare ciò che vuole essere.    L’indiano Kobeua, dunque, spreme l’occhio che vorrebbe avere, quello del falco, nel proprio: occhio per occhio – dove la preposizione per indica ciò che «sottolinea il rapporto tra una cosa che esercita la propria influenza e la persona su cui tale influenza viene esercitata».(251) Perché la procedura simbolica e l’operazione del «facente funzione», in questo caso, si realizzano in un atto di assorbimento, in un’intimità che immaginiamo sconvolgente. Concretamente, questo indiano mangiava per vedere. Perché il fatto di spremere l’umor vitreo dell’uccello tra le sue labbra o tra le sue palpebre era già un modo di mangiare – o piuttosto, nel caso specifico, un modo di bere. In altre foreste, altri indiani mangiano gli occhi dei gufi per poter vedere al buio.(252) Altrove, gli uomini divorano i loro uccelli augurali – corvi e falchi – per vedere nel futuro.(253)    L’atto di mangiare diventa così l’esercizio per eccellenza di un rito di passaggio, un’iniziazione al potere – in particolare, al potere di uccidere. Quando la giovane mamma porge al suo angioletto una cucchiaiata di minestrina dicendo scherzosamente Mangia, non sai chi ti mangerà,(254) sa benissimo che bisogna mangiare se non si vuole morire, cioè se non si vuole essere uccisi. Ma forse non sa che, in tutto il mondo, bisogna anche mangiare per uccidere meglio, e addirittura mangiare quello che si vuole uccidere, cioè quello che, in un modo o nell’altro, abbiamo già ucciso. Perciò l’estenuante repertorio di Frazer non cessa di scuoterci – di cagionarci qualcosa a mezza via tra l’angoscia e la risata isterica –, come ci scuote, in tutti i sensi, la parola onnivoro, attribuita, come è noto, a moltissimi uccelli, ai maiali, ai ratti e ovviamente agli uomini, onnivori fino al delirio (cioè fino a farne un vero e proprio sistema), onnivori fino all’omovoracità. È la voracità tipica dei rituali, la voracità tipica di ogni credenza. Una sola pagina, che già ci sembra interminabile, sulle due o tremila dell’opera di Frazer, sarà sufficiente a farci riaprire gli occhi:

I guerrieri delle tribù Theddora e Ngarigo, nell’Australia meridionale, mangiavano, per acquistare coraggio, le mani e i piedi dei nemici uccisi. Nella tribù Dieri dell’Australia centrale, una volta che un condannato era stato ucciso, le armi che erano servite all’esecuzione venivano lavate in un piccolo recipiente di legno, e la miscela di sangue era distribuita ai boia, secondo un preciso rituale: essi si stendevano sulla schiena e gli anziani versavano loro il liquido nella bocca. Si credeva che questo procedimento aumentasse la loro forza, il loro coraggio e la loro energia, in vista dell’impresa successiva. I Kamilaroi del Nuovo Galles del Sud mangiavano il fegato e il cuore dei valorosi, e nel Tonchino è superstizione popolare che il fegato dei coraggiosi comunichi coraggio a chi ne mangia. Così, quando nel Tonchino venne decapitato un missionario cattolico, nel 1837, il boia strappò il cuore della vittima e ne mangiò una parte, mentre un soldato cercava di divorarne un altro pezzo crudo. Con lo stesso scopo i Cinesi inghiottono la bile dei famosi banditi giustiziati. I Daiachi di Sarawak mangiavano il palmo delle mani e la carne delle ginocchia agli uccisi per aver mani ferme e ginocchia robuste. I Tolalaki, notissimi «cacciatori di teste» del Celebes centrale, bevono il sangue e mangiano il cervello delle loro vittime per diventare coraggiosi; gl’Italones delle Filippine bevono il sangue dei nemici uccisi e per lo stesso scopo mangiano cruda la parte posteriore della testa e delle viscere. Gli Efugao, altra tribù delle Filippine, succhiano il cervello del nemico, e i Kai della Nuova Guinea ex tedesca lo mangiano. Presso i Kimbunda dell’Africa occidentale, quando un nuovo re sale al trono, si uccide un prigioniero di guerra coraggioso e il re con i nobili lo mangiano per ottener la sua forza. Il famigerato capo zulù Matuana aveva bevuto il fiele di trenta capi di popolazioni da lui distrutte, credendo di farsi più forte. Gli Zulù immaginano che la forza di guardare coraggiosamente in faccia i nemici si acquisti mangiando il centro della fronte e le sopracciglia di un nemico. A Tud, o Isola del Guerriero, nello stretto di Torres, gli uomini bevevano il sudore di celebri guerrieri, e mangiavano i residui di sangue umano avanzati sotto le unghie delle loro mani, per diventare «forti come la pietra, e non conoscere la paura». A Nagir, un’altra isola dello stretto di Torres, per infondere coraggio ai più giovani, il guerriero prendeva l’occhio e la lingua di un uomo che aveva ucciso e, dopo averli sminuzzati, li mescolava con la sua orina; il tutto veniva poi somministrato al giovane, che sedeva ad occhi chiusi tra le gambe del guerriero. Gli indigeni di Minhassa del Celebes, prima di ogni spedizione guerresca, prendevano i capelli di un nemico ucciso e li immergevano nell’acqua bollente per estrarne il coraggio; l’infusione era poi bevuta dai guerrieri.(255)

E così via. Come vediamo, non si tratta solo della materializzazione dell’adagio «l’uomo è un lupo per l’uomo»: con un po’ di raffinatezza in più (di crudeltà, intendo), l’uomo può essere anche un tè per l’uomo, oppure la sua migliore pietanza ricostituente, il brodo sopraffino che permetterà di uccidere meglio. Dammi da mangiare la tua fronte, perché io possa vederti in faccia, dominare la tua morte, e dunque la mia. Per godere idealmente del potere di ucciderti, e di essere altrettanto coraggioso quando sarai tu a mangiare me.
In fin dei conti, nella logica del racconto di Frazer, questa voracità rituale mirerebbe proprio a far diventare, a far essere un dio. Il desiderio estremo sarebbe forse, semplicemente, quello di mangiare il cielo. È quanto accade in altre foreste, dove un giorno un uomo decide di mangiare quel che cade dal cielo. Divora gli uccelli, beve la pioggia. Ma, soprattutto, fa la posta a tutto ciò che è stato colpito dal fulmine: pasteggia con i resti delle combustioni celesti – animali folgorati, alberi carbonizzati, meteore –, e con essi prepara degli unguenti che poi incorpora attraverso la pelle, per scarificazione, come se volesse aprirsi cento bocche. Così, il cielo entra in lui. A poco a poco, egli diventerà il cielo, il suo custode sulla terra o, per usare le sue parole, il suo rappresentante:   

Infatti, quando il cielo è sul punto di oscurarsi, prima che compaiano le nubi o rombi il tuono, il cuore del guardiano celeste sente arrivare il temporale: comincia a fremere, è eccitato dalla collera. Quando il cielo comincia a incupirsi, anche l’uomo si incupisce; quando il cielo tuona, lui aggrotta le sopracciglia perché il suo volto sia corrucciato come l’espressione irritata del cielo.(256)        

Immagino anche che egli pianga quando piove, e che si sfiati quando c’è vento. Immagino che questo vorace esercizio della somiglianza lo aiuti a non sentirsi troppo morire sotto al sole".


Tratto da: Georges Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
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248. James G. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, Macmillan, London 1890-1915, 12 voll. (n. ed. St. Martin Press, New York 1990) [trad. it. – dell’ed. ridotta del 1922 – Il ramo d’oro. Della magia e della religione, Borighieri, Torino 1973, p. 272].

249. Ibid. (trad. modificata).

250. Ippocrate, De loci in homine, XLII, 2, in Œuvres, XIII, a cura di Robert Joly, Les Belles Lettres, Paris 1978, p. 72.

251. Émile Littré, Dictionnaire de la langue française (1866), Éditions du Cap, Monte Carlo 1966, III, p. 4897.

252. Cfr. Frazer, Il ramo d’oro cit., p. 773.

253. Cfr. ibid. Comincia a essere chiaro che, a contrario, mangiare la carne di un pollo rende paurosi – o che mangiare la carne di una tartaruga impedisce di correre [cfr. ibid., p. 772].

254. La diffusa espressione mange, tu ne sais pas qui te mangera per estensione significa «goditi la vita». Ma nel contesto, ovviamente, si è preferito tradurla letteralmente. [N. d. T.].

255. Frazer, Il ramo d’oro cit., pp. 775-76 (trad. modificata e integrata). La pagina è tratta dallo stesso capitolo, dal titolo «Magia omeopatica di una dieta carnea» (ibid., pp. 771-76), il che ci indica ancora una volta che siamo al di là del bene e del male, e che in questi riti di guerra (distruttori) operano tutti i dispositivi comuni all’arte di guarire (riparatori). Géza Róheim ci segnala molti fatti simili nel suo capitolo The Medicine-Man and the Art of Healing , in Animism, Magic, and the Divine King (1930), Routledge & Kegan Paul, London 1972 [trad. it. Il medicine-man e l’arte di guarire, in Animismo, magia e il Re divino, Astrolabio, Roma 1975, pp. 115-16].

256. Frazer, The Golden Bough cit. [Il brano non è incluso nella trad. it. cit. (N. d. T.)].