martedì 14 agosto 2018

La sfiducia nell'immagine


In una Napoli rigida e glaciale, si dipanano le storie di due “amici di letto”, rappresentanti della nuova borghesia partenopea: il primo, Marco Macaluso, è un imprenditore cinico e senza scrupoli; la seconda, Lucia Sembiante, è una professoressa universitaria ninfomane, ma con un senso dell’etica ancora forte. Quando Lucia decide di sposarsi, incontrerà per l’ultima volta Marco, che con il suo addio la porrà di fronte alla possibilità di ribellarsi finalmente a un sistema corrotto e malsano. 
In La buona uscita c’è uno strano senso di sfiducia nell’immagine. Uno scetticismo nella rappresentazione del mondo che fa prediligere il linguaggio come primo veicolo di trasmissione di significati. Non è che la forma non abbia la sua forza, tutt’altro, ma appare come se fosse anestetizzata dalla parola. Parola che quindi in qualche modo si formalizza e si astrae nello spazio tra le immagini. La grandiosità di questo primo lungometraggio di Emilio Iannaccone sta infatti nella mancanza di connessione tra le frasi pronunciate per buona parte del film. Il suo discorso è creato senza ombra di dubbio dalla recitazione, che tritura molti registri espressivi, ma si compone come se volesse essere sempre la parodia di se stessa. Vengono in mente allora i formati post-postmoderni di quella comicità spesso rapida e indolore, di quel modo di atteggiarsi che porta la figura recitante allo stesso tempo lontana e vicina a ognuno dei possibili bersagli della sua spesso spietata ironia. Il personaggio di Marco Macaluso è infatti molte volte proprio questo: un tripudio di insignificanza che si erge a valore assoluto, una fuga continua da una realtà assemblata da fatti che non sussistono. La prima parte del film in questo senso è micidiale: ci troviamo sballottati da una scena all’altra senza comprendere il perché, senza capire le motivazioni che dovrebbero sostenere lo svolgere degli eventi. Quello di Iannaccone è un cinema che frantuma gli interstizi del vezzo attoriale all’italiana (e anche più specificamente, alla napoletana), ne fa una poltiglia e lo ripropone come materia nuova e nuovamente plasmabile. C’è sempre un eccesso, una sproporzione, un’abbondanza che trascina lo spettatore in una fruizione che è in parte godimento e in parte sofferenza per l’impossibilità di sbrogliare ogni gesto assaporato. Poi, però, avviene il miracolo: in equilibrio sul filo dell’antilinguaggio per buona parte del racconto (un antilinguaggio, lo ripetiamo, stracolmo di senso), il film si apre e lascia spazio a un vortice di nuove emotività e sensibilità, stavolta chiare e lampanti, tutte racchiuse nel personaggio sublime di Lucia Sembiante. E nella sua ultima parte, si esprime addirittura chiaramente, trasportando tutto ciò che aveva messo in scena fino a quel momento in un rinnovato spazio espressivo. Parlavo in apertura di sfiducia nell’immagine: mi ero sbagliato. La buona uscita è esso stesso l’immagine lucida di quella via minimale, ma illusoriamente astratta, che il cinema italiano oggi dovrebbe sempre avere il coraggio di percorrere.

Pubblicato per la prima volta sul catalogo del festival Presente Italiano 2016.

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