mercoledì 20 febbraio 2019

Alla mercé dello sguardo maschile

Olympia (1863)

Sulla sovversione dell'identità e sul discorso che ruota attorno al genere, una delle osservazioni più chiare e semplici da comprendere credo l'abbia espressa John Berger nel 1972. Il critico sosteneva infatti che "nella forma artistica del nudo europeo i pittori e gli spettatori-proprietari erano di solito uomini, mentre le persone trattate da oggetti erano per lo più donne. Questa disparità è profondamente radicata nella nostra cultura da strutturare ancor oggi la coscienza di molte donne. Esse fanno a se stesse ciò che gli uomini fanno loro. Sorvegliano la propria femminilità, esattamente come fanno gli uomini".
Nell'arte contemporanea la categoria del nudo è quasi scomparsa, o quantomeno è stata messa all'angolo da un modo differente di concepire la figura della donna. Punto di svolta è stata senza ombra di dubbio l'Olympia di Manet in cui la figura principale sembra contestare il ruolo che le è stato imposto (quello di corpo inerme alla mercé dello sguardo maschile).
Se l'arte ha compreso determinate questioni, il mondo della comunicazione e quello del quotidiano - fatto soprattutto dagli sguardi dell'"uomo della strada" - sembrano proseguire sempre nella stessa e stantia direzione. Sarà scontato, ma il ritorno del represso è una funzione essenziale per la liberazione di alcuni elementi censurati da una repressione ideologico-politica e quindi credo sia sempre più necessario farlo emergere dal contenuto del prodotto artistico (mentre ultimamente mi pare che l'analisi delle immagini, da questo punto di vista, sia sempre più sacrificata in nome del "sacro" soggettivismo del "mi piace/non mi piace"). Perché l'arte, alla fine, dice sempre la verità.
La morale? È che dovremmo (re)imparare a osservare in profondità e sarebbe bene iniziare a farlo in fretta, altrimenti va a finire che - come sosteneva il maestro Antonio Rezza - "qua, amico mio, nun ritrovamo proprio un cazzo".

Venere di Urbino (1538)