"Dopo oltre trentacinque anni dalla nascita di MTV - la prima emittente
mondiale dedicata alla musica da vedere - il linguaggio del videoclip è
totalmente mutato, amplificando sempre di più le interferenze con gli
altri media e gli intrecci con il contesto delle arti visive. Nuovi
autori, inoltre, si sono affacciati sulla scena internazionale,
ottenendo numerosi riconoscimenti. Strutturato in cinque capitoli, il
libro - evitando di limitarsi a un'ottica anglocentrica e allargandosi,
attraverso numerosi esempi, ai music video di molti altri paesi -
esplora l'universo di questa innovativa forma audiovisiva, da un punto
di vista storico (partendo dagli antecedenti del videoclip), isolando
alcune tematiche, tendenze e categorie (il clip coreografico, quello
narrativo e quello sperimentale), e approfondendo l'immaginario di
alcuni registi e musicisti in particolare, senza tralasciare,
nell'ultimo capitolo, un focus sulla storia della videomusica italiana".
martedì 31 luglio 2018
martedì 24 luglio 2018
Leggere le immagini #19 - Il discorso e lo sguardo
"Il discorso e lo sguardo traccia un atlante cinematografico in forma
scritta. I film non sono solo i testi audiovisivi che siamo abituati a
vedere in sala e a casa nostra, ma anche luoghi di discussione ed
elaborazione culturale. La critica si incarica di analizzarli e di
determinare un giudizio di valore estetico. La cinefilia, invece, assume
il cinema come oggetto di passione e pratica la relazione con i film
come se si trattasse di rapporti sentimentali, fatti di amore,
desiderio, lite, odio, e ancora ritorno di fiamma e riappacificazione.
Per raccontare questo mondo, sconvolto per di più dalle trasformazioni
dei media e del consumo dei film nell'era digitale, il volume assume
diversi punti di vista: dallo spirito letterario al piglio storico,
dall'analisi del film al confronto intellettuale con i maestri. Ogni
aspetto della cultura cinematografica, scritta e vissuta, viene di volta
in volta affrontato: le recensioni, i festival, il divismo, i
blockbuster, il cinema d'autore, la teoria, e le nuove forme di consumo,
dai blog alle serie televisive".
martedì 17 luglio 2018
Leggere le immagini #18 - Cultura video
"Il volume mira a indagare la nascita della cultura video in
Italia e a delineare una sua mappa concettuale attraverso i discorsi, le
pratiche e le tecnologie di usi tra gli anni Settanta e gli anni
Novanta del Novecento, ossia durante l’affermazione del video analogico.
Prendendo avvio dalla rielaborazione del concetto di cultura filmica,
si osservano non le espressioni artistiche connesse al nastro
magnetico, ma la sua diffusione “dal basso” e “di massa”. In
particolare, il libro si concentra sull’analisi delle riviste
specializzate tra il 1970 e il 1995 (anno in cui la comparsa delle prime
tecnologie digitali per il mercato consumer segna un cambio di
paradigma mediale): tali riviste, infatti, rappresentano un repertorio
fondamentale per la mappatura del dibattito che regola la nascita e
l’affermazione della cultura video all’interno della società italiana".
giovedì 12 luglio 2018
Il cinema è un sonno. Cinque film sul riposo dal mondo
È bene chiarire immediatamente una cosa:
parlare di un ipotetico “vuoto” cinematografico potrebbe anche voler dire
mettersi a riflettere sull’autoreferenzialità del cinema stesso, e cioè sul
fatto che alcune pellicole parlino solo e unicamente di sé o che, comunque sia,
decidano di descrivere qualcosa che non vada mai al di là dei confini oltre i
quali si trova il mondo. Cercare dunque delle tappe per un cinema del genere
potrebbe risultare un’impresa assai ardua: parlarne con libertà - e quindi in
un modo assolutamente non vincolato - è una necessità che, in una riflessione
di questo tipo, risulterebbe ineliminabile. Leggere i vuoti intrinseci del
cinema non è l’impresa che vorrei però affrontare in questa sede, quella che
sento è invece l’urgenza di crearne alcuni di personalissima fattura: il
vuoto inteso in questo caso è quindi quello spazio che resta tra il film e il mondo. Un vuoto divisorio, un vuoto che separa, un vuoto che non viene
percepito ma che riesce a farsi sentire tramite questa assenza che è poi la sua
stessa essenza (dal momento che è pensabile, esso è). Come scriveva Freud: “Il sonno è uno stato nel quale io non
voglio saper nulla del mondo esterno, ho ritirato da esso il mio interesse. Nel
mettermi a dormire mi ritraggo dal mondo esterno e tengo lontani da me i suoi
stimoli. Mi addormento, anche, quando ne sono stanco. Nell’addormentarmi dico
dunque al mondo esterno: lasciami in pace perché voglio dormire” (Sigmund
Freud, Introduzione alla psicanalisi,
in Sigmund Freud, Opere. 1915-1917,
Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 264).
Esistono dei film che sono il nostro
pretesto per metterci a riposo dal mondo. Eccone cinque tra i più importanti di
sempre:
Bianca
di Nanni Moretti
Di un film del genere se ne sente il
bisogno già prima di averlo visto. Un film, tutto sommato, di genere, con
quelle sue incursioni in territori differenti (rispetto a ciò che pensiamo di
vedere), con quelle risoluzioni che attorcigliano i sensi prima ancora che essi
si siano stabilizzati.
C'è niente e tutto, dentro questo
contenitore: c'è, sopra-tutto, la consapevolezza che esistere sia la cosa più
faticosa in assoluto. Come schegge impazzite ci ritroviamo a voler essere gli
Altri, per poter vivere quello che, se fosse dentro noi, sarebbe aprioristicamente
evitato.
E allora ecco una vita, dieci vite,
cento vite che si stropicciano strofinandosi tra loro, che storcono il naso
solo perché non in grado di essere vive ognuna nell'esistenza dell’altra. Poi arriva
anche l'ironia (quella che sostiene il mondo, non certo quella del falso pensiero
o della vera ipocrisia) ma forse non proprio immediatamente, un po’ in là,
spostata nel tempo - ma non nello spazio, in quanto è, nei luoghi, ovunque
presente -, ed è di quelle ironie che trasportano il seme della sensibilità: di
quelle più pure insomma, di quelle più autentiche.
Ma tutto alla fine resta e niente resta,
come il cellulare della polizia (quello dell'ultima sequenza, ma, volendo,
anche quello metaforico della negazione-di-libertà) che ci lascia succubi e
allo stesso tempo fedeli a quella cosa tragica e distruttiva che siamo soliti
chiamare Destino.
Un film che vive a fa (soprav)vivere,
per tutta la sua durata e anche per sempre.
È un sonno ristoratore.
Tokyo
Fist
di Shin'ya Tsukamoto
La violenza della/nella crudeltà, un
pensiero smarrito che si muove rapsodicamente e poi fluttua, come il corpo di
Tsuda che galleggia nel grigiore della fredda Tokyo.
Il respiro dei colpi, la rarefazione
della carne che gonfia e si sgonfia similmente a quella brama di vivere, che,
nello stesso modo, attraverso il cammino dell'esistenza, ci fa veramente
“essere”. Il montaggio serrato e schizofrenico è come l’incubo del reale, che
si riflette in maniera spasmodica negli angoli bui della vita di ciascun vivente.
Incredibile, invece, è la pazienza dei
volti, che attendono di morire e rinascere per mezzo di un masochismo
desiderato ma allo stesso tempo rifiutato ed evitato; prima trovato ed
entusiasticamente sperimentato, poi, di nuovo, mal sopportato e abbandonato, come
l’idea di un nuovo postumanesimo cicatrizzata nella mente di Hizguru, colei che
martirizza al contempo se stessa e tutto il genere femminile.
Tokyo Fist è ciò che siamo e ciò che non
siamo, ma prima di tutto, è quello che vorremmo essere.
È un sonno straziante.
Cul-de-sac
di Roman Polanski
Un cerchio aperto e poi chiuso.
Cul-de-sac, non se ne esce. In verità nemmeno si entra, perché in quel micro
universo tutto funziona secondo logiche particolari, che chiudono il flusso
verso l’esterno e di conseguenza verso il proprio interno.
Personaggi di un astrattismo che rasenta
la realtà (perché questa, in fondo, lo è più dei sogni astratta, o di qualsiasi
altra cosa che abbia il sapore dell’intangibile e dell’immateriale), circoli
che si chiudono non su se stessi ma su altro che ancora non ci è dato sapere.
La luce, poi, non sembra essere
percepibile, nemmeno - e sono la maggior parte - nelle scene diurne, perché a
oscurarla c’è sempre e comunque l’animo corrotto di tutti i personaggi - ma
loro in fondo non ne hanno la minima colpa - che ci appaiono sullo schermo. Il
grottesco, la più grande qualità del film, appare come qualcosa di non ben
definito, come un demone che s’inoltra nelle intercapedini delle immagini e da
esse trae sostentamento.
È il Polanski più allegro/triste di
sempre.
È un sonno perenne.
Viridiana
di Luis
Buñuel
C’è il terrore di assumerli i connotati
di Viridiana, di assomigliarle come è dentro, di metamorfizzarsi unicamente
nella direzione di quel “bigottismo” poche volte nominato all’interno della
pellicola, ma con un’intensità tuttavia abbacinante, con una potenza
incontrollabile.
La povertà, intesa come condizione
sociale, è stracciata in quanto a sua volta vuota di ciò che (forse) è per
l’essere umano la cosa più preziosa: la cultura. Cultura però concepita non in
modo - di nuovo - bigotto o stantio, bensì in una maniera che è quella
dell’avvicinamento vero e sincero all’armonia delle passioni, al tripudio della
purezza dello spirito.
Buñuel ci insegna che ogni cosa deve essere letta secondo le precise
logiche della sensibilità dell’animo umano, e non secondo un edonismo inesistente
e facente parte solo di quel mondo fittizio e ideale che è a noi in verità meno
apparente di quanto in realtà sia.
La chiave funzionante come passepartout
è quella meno facilmente rintracciabile: tutto ciò che vediamo, assaporiamo,
interiorizziamo è talmente concentrato e evanescente che sembra quasi si
ritorni nuovamente a parlare di automatismi psichici.
Sì, è ancora una volta Surrealismo.
È un sonno trasparente.
L’Arpa
Birmana [ビルマの竪琴] di Kon Ichikawa
I movimenti dell’anima e quelli del
corpo, come flussi che si spostano nella stessa direzione ma che non si
incontrano mai. “Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania”.
Mizushima: l’uomo che sacrifica la vita, innalzando lo spirito per dare
sepoltura alle macerie della guerra e del materialismo.
Non c’è scampo su questa terra se non si
è consci del fatto che ciò che non è Pensiero ci porta irrimediabilmente all’autodistruzione.
La pietà opposta alla crudeltà, il
pacifismo più intenso alla violenza più cruda, e la carità come mezzo per
annullare le sofferenze umane. Visioni utopistiche che grazie a Mizushima
riescono, seppur per pochi istanti, a divenire qualcosa di estremamente
concreto.
Un urlo silenzioso che rimbomba, nel
vuoto, irritante e scomposto rumore dell’indifferenza.
È un sonno sofferente.
La cosa più straordinaria di questi film
è la loro incredibile capacità di diversificare la rappresentazione, di non far
mai conformare uno all’altro alcuno degli elementi contenuti in essa. Nella
realtà (nel mondo) oggi tutto rischia di essere percepito su uno stesso livello,
e ogni cosa che si sceglie di rappresentare finirà inevitabilmente con
l’omologarsi alla totalità del sistema di destinazione. Come afferma Jacques
Rancière: “tutto è ormai sullo stesso piano, i grandi e i piccoli, gli eventi
importanti e gli episodi insignificanti, gli uomini e le cose. Tutto è
uguaglianza, ugualmente rappresentabile. Questo ‘ugualmente rappresentabile’ è
la rovina del sistema rappresentativo” (Jacques Rancière, Il destino delle immagini, Pellegrini Editore, Cosenza 2007, p. 169).
C’è però un certo modo di fare cinema - in particolare in certi film fiabeschi,
tra i quali possiamo includere tranquillamente quelli elencati poco più sopra -
nel quale la rappresentazione si fa multifunzionale e polifonica. In questo
tipo di cinema gli elementi messi in scena non sono uno simile all’altro ma, al
contrario, ognuno è ben distinto e contenuto in un suo involucro
caratterizzante. I film realizzati attraverso questo modo di esprimere la
rappresentazione ci tengono lontani dal mondo in quanto ne creano un altro; ed
è un mondo che si crea non tanto grazie all’unione dei loro elementi, ma più
specificamente per mezzo della caratterizzazione delle particolarità delle loro
particelle costituenti. Quando questo tipo di film entra in azione la nostra
realtà non persiste più e il flusso di quelle immagini in movimento trasforma
lentamente ogni cosa in una nebulosa attraverso la quale è terribilmente
complesso riuscire a districarsi; citando Jean Cocteau, si entra in “una specie
di stato sonnambolico che incoraggia la combinazione, il collegamento e la
deformazione del libero flusso di ricordi, finché essi assumono una forma a noi
estranea e diventano un enigma” (Jean Cocteau in Alfredo Leonardi, Occhio mio dio. Il New American Cinema,
CLUEB, Bologna 2006, p. 27). Allora, e solo allora, il cinema diverrà un meraviglioso
sonno.
Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 39, luglio/agosto 2013
venerdì 6 luglio 2018
Juvenile Delinquency
Fa un po’ strano parlare di neorealismo quando si fanno i conti con il cinema di Hector Babenco e in particolare con questo suo terzo lungometraggio di finzione. L’intento di rappresentare un mondo di reietti ed emarginati presi dalla strada si scontra infatti sottilmente con un’attitudine che ha più di qualcosa a che fare con quella che potremmo definire una dinamica da exploitation; il sottofilone dei juvenile delinquents ingloba con facilità le disavventure del giovane Pixote e dei suoi compari e in un certo modo dà l’impressione di voler far prevalere in molti momenti il bisogno di oltrepassare il dato reale e documentaristico in cambio di dettagli che stringano un’intesa più forte con l’eclatante e il sensazionalistico.
Ma tutto ciò in realtà fa parte solo di percezioni superficiali, perché Babenco ha anche un grande equilibrio e sa dove fermarsi, sa quando è il momento di affondare la lama e quando è il caso di defilarsi. Sa insomma quando è necessario mostrare e quando è forse più giusto sottintendere. In questo modo ne esce un’opera molto diretta, ma allo stesso tempo assai vicina a certe forme di realismo poetico. Pixote è uno dei tanti ragazzi di quella parte di Brasile che sembra essere stata dimenticata da Dio (presenza/assenza importantissima per tutta la storia del cinema brasiliano), è uno di quelli che spera in un mondo migliore ma che poi - quasi senza accorgersene - si dimentica seraficamente che possa esserci la possibilità di trovarlo. Pixote è uno che esiste senza vivere, semplicemente perché nessuno glielo ha mai insegnato.
Quello dell’educazione è forse il tema più imponente, su cui Babenco insiste per tutta la prima metà del film: il riformatorio in cui il giovane viene recluso è un luogo nel quale si impara poco o nulla e in cui gli unici istanti nei quali lo si potrebbe fare, finisce che si resta persi nel vuoto, alla ricerca di un senso da dare a tutto quello che è accaduto negli altri terribili, precedenti momenti. Ciò che ci viene con forza imposto è dunque uno sguardo per niente compassionevole, che vuole dirci che non tanto la povertà rende la vita impossibile quanto l’assenza di incontri con persone che sappiano mostrarci il buono dell’esistenza. Non è appunto un caso che la seconda parte del film, con i ragazzi che pensano di aver ottenuto la tanto agognata libertà fuggendo dalla sporca e putrida prigione, mostri come il mondo esterno sia semplicemente la riproposizione su larga e più spietata scala di quello interno al riformatorio. E gli incontri, appunto, continuano a essere cattivi incontri; anche la prostituta Sueli, figura mariana di potenza inaudita che ribalta il suo valore simbolico in una delle sequenze più belle e intense del film, nella quale prima allatta e poi immediatamente dopo allontana con violenza il giovane Pixote, si mostra alla fine per quella che realmente è: una donna a cui è stato tolto tutto e cioè la possibilità di attuare la propria maternità e di conseguenza l’opportunità di imporsi come entità salvifica. E senza madri, non ci sono figli, non c’è perdono e nessuna vita è possibile.
Pubblicato per la prima volta sul Catalogo del 35° Premio Sergio Amidei, 2016.
mercoledì 4 luglio 2018
Leggere le immagini #17 - Il cinema francese negli anni di Vichy
"Il 17 giugno 1940 il maresciallo Pétain annunciò alla radio che il
governo da lui formato avrebbe chiesto un armistizio alla Germania. La
Francia fu divisa e il regime di Vichy iniziò a operare discriminazioni
politiche e civili e a collaborare con l’occupante. Avanzava sotto
diverse forme la risposta alla “decadenza” della Francia repubblicana:
la “rivoluzione nazionale”, e con essa una ristrutturazione del cinema
nazionale, parte di una più ampia operazione di colonialismo economico
condotta dalla Germania nazionalsocialista. Tra il 1940 e il 1944
l’industria del cinema francese produsse duecentoventi lungometraggi di
finzione: commedie leggere, adattamenti letterari, melodrammi,
polizieschi, ambientazioni storiche e fantastiche. Il pubblico si recò
al cinema con continuità, premiando i film francesi: un paradosso che
rispondeva a un “bisogno esistenziale di scuotersi da dosso la realtà
quotidiana e l’umiliazione”.
Il saggio iniziale ricostruisce il contesto produttivo e culturale del cinema francese del periodo, mentre le schede filmografiche che lo accompagnano restituiscono al lettore la sua ricca e sorprendente varietà: un’ampia selezione di opere e autori che rende conto della “curiosa età dell’oro” vissuta dal cinema francese durante il periodo di Vichy, contraddistinta dall’oscillazione tra il collaborazionismo e la resistenza, tra l’Occupazione e la Liberazione".
Il saggio iniziale ricostruisce il contesto produttivo e culturale del cinema francese del periodo, mentre le schede filmografiche che lo accompagnano restituiscono al lettore la sua ricca e sorprendente varietà: un’ampia selezione di opere e autori che rende conto della “curiosa età dell’oro” vissuta dal cinema francese durante il periodo di Vichy, contraddistinta dall’oscillazione tra il collaborazionismo e la resistenza, tra l’Occupazione e la Liberazione".
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