venerdì 6 luglio 2018

Juvenile Delinquency


Fa un po’ strano parlare di neorealismo quando si fanno i conti con il cinema di Hector Babenco e in particolare con questo suo terzo lungometraggio di finzione. L’intento di rappresentare un mondo di reietti ed emarginati presi dalla strada si scontra infatti sottilmente con un’attitudine che ha più di qualcosa a che fare con quella che potremmo definire una dinamica da exploitation; il sottofilone dei juvenile delinquents ingloba con facilità le disavventure del giovane Pixote e dei suoi compari e in un certo modo dà l’impressione di voler far prevalere in molti momenti il bisogno di oltrepassare il dato reale e documentaristico in cambio di dettagli che stringano un’intesa più forte con l’eclatante e il sensazionalistico.
Ma tutto ciò in realtà fa parte solo di percezioni superficiali, perché Babenco ha anche un grande equilibrio e sa dove fermarsi, sa quando è il momento di affondare la lama e quando è il caso di defilarsi. Sa insomma quando è necessario mostrare e quando è forse più giusto sottintendere. In questo modo ne esce un’opera molto diretta, ma allo stesso tempo assai vicina a certe forme di realismo poetico. Pixote è uno dei tanti ragazzi di quella parte di Brasile che sembra essere stata dimenticata da Dio (presenza/assenza importantissima per tutta la storia del cinema brasiliano), è uno di quelli che spera in un mondo migliore ma che poi - quasi senza accorgersene - si dimentica seraficamente che possa esserci la possibilità di trovarlo. Pixote è uno che esiste senza vivere, semplicemente perché nessuno glielo ha mai insegnato.
Quello dell’educazione è forse il tema più imponente, su cui Babenco insiste per tutta la prima metà del film: il riformatorio in cui il giovane viene recluso è un luogo nel quale si impara poco o nulla e in cui gli unici istanti nei quali lo si potrebbe fare, finisce che si resta persi nel vuoto, alla ricerca di un senso da dare a tutto quello che è accaduto negli altri terribili, precedenti momenti. Ciò che ci viene con forza imposto è dunque uno sguardo per niente compassionevole, che vuole dirci che non tanto la povertà rende la vita impossibile quanto l’assenza di incontri con persone che sappiano mostrarci il buono dell’esistenza. Non è appunto un caso che la seconda parte del film, con i ragazzi che pensano di aver ottenuto la tanto agognata libertà fuggendo dalla sporca e putrida prigione, mostri come il mondo esterno sia semplicemente la riproposizione su larga e più spietata scala di quello interno al riformatorio. E gli incontri, appunto, continuano a essere cattivi incontri; anche la prostituta Sueli, figura mariana di potenza inaudita che ribalta il suo valore simbolico in una delle sequenze più belle e intense del film, nella quale prima allatta e poi immediatamente dopo allontana con violenza il giovane Pixote, si mostra alla fine per quella che realmente è: una donna a cui è stato tolto tutto e cioè la possibilità di attuare la propria maternità e di conseguenza l’opportunità di imporsi come entità salvifica. E senza madri, non ci sono figli, non c’è perdono e nessuna vita è possibile.

Pubblicato per la prima volta sul Catalogo del 35° Premio Sergio Amidei, 2016.

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