mercoledì 10 ottobre 2018

Leggere le immagini #24 - The Weird and the Eerie


"The Weird and the Eerie è l'ultimo libro pubblicato in vita da Mark Fisher, scrittore e critico culturale inglese che anche nel nostro paese sta ora raccogliendo grande interesse. Nel ricordare l'amico, Simon Reynolds ha scritto: «Costruendo, con incomparabile rigore ed eloquenza, un ponte tra estetica e politica, critica e attivismo, Fisher costituiva il modello esemplare di intellettuale impegnato [...] un "John Berger post rave", potremmo dire». Quest'ultima definizione consente anche di inquadrare The Weird and the Eerie, in cui s'indagano - tra letteratura, musica e cinema - due forme del sentire e del narrare che non hanno una perfetta corrispondenza nella nostra lingua. Solo approssimativamente, infatti, il weird può essere reso con «strano» e l'eerie con «inquietante». Fisher segue e spiega queste due categorie attraverso le arti e le epoche: il weird si rivela così nei racconti di H.P. Lovecraft, nelle canzoni dei Fall, nei romanzi di Philip K. Dick e nei film di David Lynch, mentre feerie si manifesta nell'opera di scrittori, musicisti e registi come Margaret Atwood, Brian Eno, Stanley Kubrick e Christopher Nolan. «Il fascino di weird e eerie non è sintetizzabile nell'idea che "ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa". Ha piuttosto a che vedere con l'attrazione per l'esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell'esperienza comune», scrive l'autore. In questo libro, il reale si apre dunque all'ignoto, all'incubo e all'incanto".

mercoledì 3 ottobre 2018

Un mappamondo a Natale



Non è facile dare una forza lineare a un soggetto come quello di L'assassinat du Père Noël. Pieno zeppo com’è di personaggi (è praticamente un film corale) e piccolissimi dettagli - più o meno importanti - che spuntano ogni secondo dietro l’angolo, c’è veramente il pericolo di disperdere tutta quella forza narrativa nel nulla. Christian-Jacque e Charles Spaak sono però molto astuti, sanno come dare ritmo a quel flusso di intrecci tra poliziesco e commedia e aprono grandi spiragli per far sì che alla fine ogni cosa torni morbidamente al suo posto. La cosa che più colpisce è la grande capacità nel saper caratterizzare ognuno di questi personaggi: da papà Cornusse (saggio e squinternato allo stesso tempo) a sua figlia Catherine (che vive stralunata sognando un mondo tutto suo), da Léon Villard (maestro cinico ma gentile) al barone Roland (misterioso e quasi sempre romanticamente assorto), si assiste a un campionario di caratteri che creano una realtà dove ogni cosa sembra magicamente sospesa. Nel piccolo paesello isolato dal resto dell’umanità, dove la neve sembra essere la cosa più reale e tangibile, questa comunità di eccentricamente simpatici individui cerca di venire faticosamente a capo di una serie di gialli che rischiano di minacciare il loro tranquillo Natale. È in qualche modo un assemblaggio delle stilistiche tipiche del realismo poetico, dimostrando come nel cinema di questo periodo ci sia anche un fil rouge che collega sapientemente la narrazione alle estetiche già vistosamente in voga in Francia negli anni Trenta.
All’interno di questa straordinaria kermesse, sono però, in particolare, una figura e un oggetto in grado di focalizzare il senso del film. La prima è naturalmente quella del Babbo Natale, uno e trino: quello impersonato da Cornusse, portatore di rêverie e di speranza, quello rappresentato dal ladro del diamante, che in un certo senso mette in dubbio la natura stessa di quello precedente, e infine quello cadaverico scoperto dai due bambini, in qualche modo raffigurazione di una rimozione (seppur momentanea) di ogni possibile certezza. Insomma, un Babbo Natale vivo e vegeto che dispensa doni e promuove il bene, uno misterioso che ruba anziché donare e uno deceduto (che poi scopriremo essere lo stesso ladro) che per un frangente crea dubbi e confusione, rendendo non più così facilmente identificabile il confine tra verità e menzogna.
Alla fine è però il sogno a essere il tema principale, ciò in cui è necessario credere con tutta la forza possibile e immaginabile, ciò che insomma salverà il mondo (dalla guerra?), rendendo legittima la ricerca di un’interpretazione lungo questa strada. Se la figura è Père Noël, l’oggetto a cui accennavamo risulta quindi un mappamondo. Si tratta di un oggetto simbolico, tanto bramato dal piccolo Christian al punto tale dal farlo alzare dal letto nonostante la malattia. Il globo rappresenta la fiducia nell’umanità, la speranza che al di fuori di un luogo chiuso e quasi intrappolato nel tempo e nello spazio possa esserci l’altro che, tendendo la mano, volenterosamente annienti qualsiasi tipo di divergenza. Eppure è anche, da un’altra prospettiva, un contenitore di cupidigia, perché abitato da uomini che pensano che la ricchezza materiale sia ciò che più conta: l’anello nascosto in uno di questi mappamondi dal farmacista (che poi andrà in frantumi, conseguenza non trascurabile) ne è la dimostrazione lampante. Nell’ultima sequenza, tuttavia, la speranza inebria definitivamente e finalmente ogni particolare: una splendida carrellata circolare ci introduce al grande e liberatorio stupore conclusivo, assieme a papà Cornusse che, con il piccolo Christian sulle ginocchia e il mondo in miniatura tra le mani, racconta al bambino di una principessa che dorme e sogna sempre la solita cosa; un principe affascinante che la svegli e la faccia vivere per sempre felice e contenta. Un possibile riferimento dunque alla Francia (la principessa) e al generale Charles de Gaulle (il principe)? Come si è domandato Gérard Camy su Télérama, “métaphore volontaire ou interprétation d'après-guerre ?”

Pubblicato per la prima volta su Simone Venturini, Il cinema francese negli anni di Vichy, Mimesis, Milano-Udine 2017.