sabato 31 maggio 2014

Fuga mundi / Creatio mundi




"La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. Si può accettare questa definizione, anche se, a ben guardare, tutte le civiltà sono state civiltà delle immagini. Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’oeil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l’invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali. [...] Il fatto che, per esempio, mettendoci una cuffia oculare (eye-phone), infilandoci un guanto intelligente (data-glove) e indossando una tuta intelligente (data-suit), siamo in grado di entrare in una realtà illusoria e viverla come se fosse reale (o quasi), è un passo evidente in questo senso. Ora siamo in condizione di perlustrare dall’interno una realtà che è la controfigura della nostra. Il che sarebbe, in pratica, come proiettarsi dentro un videogame, E ciò senza rischio alcuno per noi stessi, in quanto la nostra azione in tale spazio si compirebbe solo con la vicaria complicità di un nostro sosia, di un alter ego digitale.

Ma nel caso in cui il videogame sia un wargame, questa presenza-assenza dell’operatore può avere impieghi tutt’altro che ludici. Esempi premonitori di tali impieghi li abbiamo intravisti in alcuni dei congegni adoperati nella guerra del Golfo (1991), congegni che, seppur in modo ancora incipiente, si sono avvalsi di tecniche informatiche atte a consentire la presenza-assenza dell’operatore. E' nata così la famigerata guerra pulita. Pulita di sicuro per l’utilizzatore di questi congegni (oppure per gli spettatori televisivi), terribilmente sporca invece per chi ne ha dovuto soffrire gli effetti, ossia per le vittime tra la popolazione civile.

È giusto sostenere che l’emergente cultura della virtualità (o, se mi si consente, dell’ipervirtualità) debba prefigurare sempre e comunque una sorta di irreversibile straniamento nel nostro rapporto con il mondo reale? In altri termini: è corretto escludere, in linea di principio, che la frequentazione delle realtà virtuali sia in grado di contribuire a un arricchimento, e non sempre a un impoverimento, del nostro rapporto conoscitivo e in ultima analisi operativo con il mondo reale?

Si tratta, in sostanza, di sapere se la produzione computazionale di immagini ad altissima fedeltà, ossia le pratiche e i prodotti dell’attività eidomatica, siano veramente in grado di arricchire la nostra esperienza, anzi di fornirci più esperienza di quella che noi avremmo potuto raccogliere, senza la mediazione dell’immaginale, in un rapporto, diciamo, empirico con la realtà. La questione sollevata concerne ciò che è stato chiamato il «valore conoscitivo dell’immaginale». È una questione che va ben oltre il particolare genere di immagini che stiamo qui esaminando, giacché riguarda tutto l’universo delle immagini illusorie. È evidente però che le immagini computazionali ad altissima fedeltà, così come tutti gli altri «fantasmi di veglia», non possono essere equiparate alle immagini sognate. La loro somiglianza è molto remota. Alla domanda: «Le realtà virtuali sono esperienze?», io non esiterei a rispondere affermativamente. Sono consapevole che, così facendo, mi espongo all’accusa di flagrante contraddizione nel mio modo di trattare l’argomento. Da un lato, denuncio il fatto che, a parer mio, le realtà virtuali ci allontanano dall’esperienza; dall’altro, sono disposto ad ammettere che esse cadono, per dirla con le medesime parole di Dennett, all’interno e non fuori dei confini dell’esperienza. E' vero, i due assunti non collimano tra loro. Si dimentica però che la contraddizione è nello stesso oggetto esaminato.

Vi è infatti un’ambivalenza di fondo nelle realtà virtuali. Anzi, in tutta la cultura della virtualità. Si tratta però di un’ambivalenza con la quale noi dobbiamo fare i conti se vogliamo (come vogliamo) resistere alla tentazione di interpretare unilateralmente il fenomeno. Anche a prezzo di dover ammettere una certa ambivalenza nell’impianto logico della nostra stessa trattazione. Sul perché io ritengo che le realtà virtuali favoriscano il nostro straniamento dalla realtà, credo di essermi soffermato a lungo, e di avere apportato, penso, alcune buone ragioni a sostegno della mia tesi. Vorrei ora discutere i motivi per i quali, nello stesso tempo, si può ritenere che, in determinati contesti, esse possano avere un indubbio valore conoscitivo. [...] Prendiamo ora in esame un settore in cui il ricorso alle immagini virtuali è molto significativo. Mi riferisco a quel settore che, per intenderci, chiamerò «artistico». Un settore che per la sua vivacità, tenacia e intraprendenza sperimentale, si configura ormai come uno dei punti di riferimento forti nello sfruttamento del potenziale creativo della virtualità. Infatti, esso appare come uno dei principali fattori propellenti, a livello di divulgazione pubblica, di questa tematica. Fino al punto che le realtà virtuali vengono di solito identificate come qualcosa che riguarda esclusivamente il mondo dell’arte. Abbiamo illustrato, in diversi passaggi di questo testo, che non è così, che il fenomeno investe certo l’arte, ma anche molte altre sfere della nostra cultura. Non è neppure vero, come taluni sostengono, con il malcelato proposito di relativizzarlo (e banalizzarlo), che il fenomeno abbia attinenza soltanto con i videogames. Ferma restando l’infondatezza di tali (e altre simili) valutazioni, è indubbio che il rapporto arte-virtualità è un fatto di estremo interesse. Non si tratta di un evento fortuito o marginale, ma costituisce, a ben guardare, uno sbocco assai promettente al ricco ventaglio delle tendenze (e intuizioni) che si sono manifestate nel panorama dell’arte negli ultimi cinquantanni. Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che siamo di fronte all’emergere di una inedita prospettiva di ricerca in cui tutte le tendenze, senza offuscare ovviamente le proprie peculiarità, potranno convergere.

Con la benevolenza dei critici d’arte (che non do per scontata), vorrei azzardare alcune riflessioni in proposito. Esaminando il variopinto universo artistico dall'ultimo dopoguerra in poi, mi ha sempre colpito il fatto che ci sono alcuni pochi nuclei, peraltro assai costanti, intorno ai quali si possono raggruppare le diverse tendenze. Vi è, per esempio, il nucleo del non-figurativismo (astrattismo, concretismo, op art, espressionismo astratto ecc.), il nucleo performativo (happening, arte concettuale, land art, minimal art ecc.), il nucleo dell'immagine programmata (arte programmata, arte cinetica, videoarte, computer art ecc.), il nucleo del realismo (neorealismo, iperrealismo ecc.). Sono consapevole dei rischi insiti in ogni classificazione, in ispecie in quella artistica. Gli esperti potranno contestare totalmente o parzialmente questa mia classificazione, ma io sono persuaso che essa descrive, con ragionevole approssimazione, alcuni orientamenti effettivamente riscontrabili nel periodo storico esaminato. Al mio scopo, questo è più che sufficiente. Ciò che mi interessa constatare è che ognuno di questi raggruppamenti può trovare adesso nelle realtà virtuali (intese in senso forte o debole), una conferma clamorosa dei rispettivi programmi e presupposti. Un nuovo eclettismo? Non direi. Mi pare che si stia avverando una situazione di tutt’altro tenore. E cioè: che diverse tendenze artistiche, pur con visioni contrapposte, si stiano ora aggregando intorno al medesimo serbatoio di tecniche - tecniche di produzione iconiche informatiche - dal quale ognuna di esse spera di potersi rifornire. Senza con ciò tradire le loro originarie matrici programmatiche. Il che non esclude, sia chiaro, che talvolta si possano dare, come sempre di più accade, vere e proprie convergenze di interessi creativi tanto nella concezione quanto nella produzione delle diverse opere.

Se questa direttrice di marcia si confermasse, non è da escludere che, prima o poi, si possa verificare una svolta di vasta portata nella storia delle avanguardie artistiche. Senza voler sminuire il loro in-dubbio contributo all’arricchimento della cultura contemporanea, mi sembra di poter dire che i risultati sinora raggiunti non sono stati all’altezza delle loro poetiche. Le cause vanno ricercate nel fatto che molti degli affascinanti scenari prospettati da quelle poetiche, privi dei mezzi tecnici per essere realizzati, hanno assunto il carattere di ingegnose scaramucce, di provocatori assaggi in preparazione di qualcosa che doveva arrivare. E che poi non è arrivato. Inoltre, il prezzo pagato per l’allontanamento dell’arte dal mondo della scienza è stato molto alto. Perché si dimentica spesso che, se da un lato la laicizzazione dell’arte ha consentito di vanificare (o più cautamente: di rendere meno esplicito) il legame di sudditanza che, nel bene o nel male, aveva avuto da sempre con il potere-committente, dall’altro lato la stessa laicizzazione ha nullificato, per motivi molto più complessi, il fecondo rapporto esistente, anche questo da sempre, tra la produzione artistica e quella scientifica. Quest’ultimo aspetto della laicizzazione ha avuto, ritengo, effetti perversi sullo sviluppo delle arti visive contemporanee.

Ci sono tuttavia fondati motivi per credere che le cose stiano cambiando. Verosimilmente, gli ultimi, eclatanti progressi nella produzione di immagini di sintesi, progressi che riguardano le scienze e le tecnologie informatiche (ma non solo esse), possono favorire, almeno in linea teorica, un risanamento della spaccatura tra arte e scienza. Senza voler correre troppo con i futuribili, di solito tanto suggestivi quanto ingannevoli, si può comunque ipotizzare che da tale ravvicinamento potranno trarre indubbi vantaggi tutti coloro che sono impegnati nella sperimentazione artistica e comunicativa. Sempre in linea teorica, si può congetturare che le diverse poetiche, anche quelle in apparenza più chimeriche, forse troveranno finalmente i mezzi produttivi all’altezza delle loro intuizioni. Dipenderà quindi da noi se, nel futuro, vorremo fare di questi mezzi, in nome di una ideologia della dematerializzazione universale, un uso alienante, oppure farne invece, come io ritengo che si dovrebbe, un uso che sfrutti al massimo il formidabile potenziale di interfaccia conoscitiva, progettuale e creativa dell’uomo con il mondo. Non una fuga mundi, ma una creatio mundi".



Tratto da: Tomás Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992.

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