sabato 10 maggio 2014

Colore, Spazio, Espressione. L'esemplarità di Soutine

Chaïm Soutine - Paesaggio a Cagnes (1922-23)
Nel 1923, Soutine, dopo un periodo trascorso a Céret, piccola cittadina ai piedi dei Pirenei orientali, si trasferisce di nuovo a Parigi[1]. Dall’anno successivo inizia a passare molto del suo tempo a Cagnes-sur-Mer; la città - che egli aveva già visitato occasionalmente nel 1918 e durante il periodo trascorso a Céret - diviene nuova fonte di ispirazione per il pittore lituano, dando una interessante possibilità di rinnovamento al suo stile già molto personale. Questo Paesaggio a Cagnes risulta in un certo modo emblematico per quanto riguarda questo suo intenso periodo.


1. Il colore

Di questo dipinto, la prima cosa a risaltare agli occhi è sicuramente il colore. Come nota Marco Vozza: “nella pittura di Soutine la visione del mondo non è mai astratta, tratteggiata dalla linea del disegno, ma incarnata nel colore, un colore capace di esprimere la drammaticità dell’emozione, la violenza dello sguardo, la ribellione della vita contro la forma, di assorbire tutta la luce del mondo e di farsi materia, densa sostanza dell’essere”[2]. Il colore in Soutine è dunque l’emozione. Tutto quanto dipenderà quindi dal colore più vivo, da quello più presente: esso diverrà una specie di linea guida per tutti gli altri.

Se a Céret era il rosso a dominare le sue tele, “un rosso caldo, denso come un sangue venoso, un rosso porpora che arde come per una febbre”[3], nel periodo di Cagnes ad avere la meglio è il verde, “un verde ora di muffe e ora di acute eccitazioni vegetali”[4]. Ed è un verde che prevale proprio nei paesaggi, un verde che diventa forma modellante, che avvolge - nel caso specifico di questo dipinto più che mai - le strutture e le figure presenti nella rappresentazione, rendendole oggetti alle volte al limite del distinguibile. Ma il verde resta il colore del totale rilassamento, e nell’istante in cui lo incontriamo con il nostro sguardo, proviamo un vero e proprio piacere liberatorio. Secondo Goethe, ad esempio: “in esso il nostro occhio trova un autentico appagamento”[5]. Dobbiamo inoltre ricordare che il verde è la risultante della combinazione tra gli altri due colori più presenti nel dipinto: il giallo e l’azzurro. Il primo è come stropicciato, compone per una buona parte la struttura dell’abitazione e a intermittenza lo troviamo anche tra la vegetazione. Sembra quasi assumere la funzione di punto di rottura, come se la forma potesse generarsi solo e unicamente attraverso le contrazioni delle sfumature dei suoi toni. Non è un caso comunque che esso sia il colore dell’abitazione: “è [...] conforme all’esperienza che il giallo produca un’impressione di calore e d’intimità [...] questo effetto di calore si avverte, nel modo più netto, se si guarda un paesaggio attraverso un vetro giallo, specialmente in grigie giornate d’inverno. L’occhio ne viene allietato, il cuore si allarga, l’animo si rasserena: un immediato calore ci prende”[6]. Il giallo diviene rifugio spirituale per colui che osserva, proprio come la casa lo è per colui che ci abita.

Poi c’è l’azzurro del cielo. Sempre Goethe ci fa notare come “questo colore esercita sull’occhio un’azione singolare e quasi inesprimibile. Come colore è un’energia e tuttavia, trovandosi dal lato negativo è per così dire, nella massima purezza, un nulla eccitante. Esso è, nell’aspetto, una contraddizione composta di eccitazione e di pace”[7]. È dunque un colore che pacifica, che rende una certa armonia al tutto e lo osserviamo volentieri “non perché ci aggredisce, ma perché ci attrae a sé”[8].

In definitiva, il colore di Paesaggio a Cagnes, è un colore armonico ma parecchio instabile, che definisce le forme in un modo a tratti nevrotico, che struttura ogni parte come se dovesse essercene una e una sola, che dona all’immagine una storpiatura che difficilmente può farci assaporare l’essenza del reale. Forse però riesce a fare molto di più: ci fa percepire la sostanza della suggestione e del turbamento, della commozione e dell’eccitazione, dell’incanto e della devozione. È pura emozione.


2. Lo spazio

“Nell’universo di Soutine si vive come su di un piano inclinato, privi di protezione, esposti come fruscelli alla furia dei venti che torcono gli alberi, in balìa di una forza centripeta che tutto travolge, anime, corpi e destini, come se il pittore volesse riversare sulla tela gli effetti della concezione einsteiniana della curvatura spazio-temporale”[9]. Quando si contempla questo Paesaggio a Cagnes, la sensazione è proprio quella che lo spazio si deformi perché il tempo si annulla.

In questa tipologia di paesaggi le distorsioni sembrano essere sempre dettate dai sentimenti che, per evadere in qualche modo a una plasticità troppo impostata e controllata, distruggono la complessiva unità compositiva[10]. In realtà, se riflettiamo attentamente su ciò che l’immagine ci trasmette, ci accorgiamo che non si tratta di una distruzione ma bensì di una ricostruzione. Il linguaggio compositivo di Soutine infatti, intende molto spesso lo spazio pittorico come se fosse una vera e propria forma ricostituente. Secondo Merleau-Ponty: “lo spazio non è l’ambito [...] in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni”[11]. È in un certo senso quello che troviamo in Paesaggio a Cagnes: lo spazio è un unicum che unifica ma soprattutto che si unisce, non contenendo forme al suo interno (non è un vuoto che si riempie, è al contrario un tutto già pieno) ma connettendo esso stesso le forme, che mutano a seconda della posizione che assumono. Lo spazio, in poche parole, non include le forme: lo spazio è la forma stessa. In questo essere forma dello spazio il dipinto trova le sembianze di un oggetto unico e universale; quella che ci viene proposta non è tanto la rappresentazione di una casa in mezzo a una folta vegetazione sotto un cielo azzurro, quanto la raffigurazione di un mondo solo e unico che non differenzia le sue singole componenti per il semplice fatto che esso è tutte le sue componenti. Quello che percepiamo attraverso la visione di quest’opera è l’espressione interiore di un uomo che cerca di riprodurre le manifestazioni delle sue sofferenze, e lo fa con un blocco unico che non ha parti ma ha solo un tutto. Soutine non riflette e vive nelle cose, considerando “vagamente lo spazio ora come l’ambito delle cose, ora come il loro attributo comune”[12], egli, al contrario, scopre “una capacità unica e indivisibile di descrivere lo spazio”[13]. Insomma, lo spazio-forma unico e indivisibile del dipinto corrisponde in qualche modo allo spazio unico e indivisibile dell’interiorità del pittore.


3. L’espressione

Il trasferimento dello spazio interiore del pittore sulla tela è il processo che sta alla base dell’espressione. Citando Argan: “espressione è il contrario di impressione. L’impressione è un moto dall’esterno all’interno: è la realtà (oggetto) che s’imprime nella coscienza (soggetto). L’espressione è un moto inverso, dall’interno all’esterno: è il soggetto che imprime di sé l’oggetto”[14].

La realtà è filtrata, è reinterpretata secondo quelle che sono le necessità emotive dell’artista: in questo specifico caso c’è una volontà distorcente derivata evidentemente da una profonda insofferenza. Secondo De Micheli, nel modo di vivere di Soutine “c’è l’eco della poetica di Rimbaud, in cui disperazione e protesta si fondono in una volontà autodistruttiva”[15]. Nel momento in cui vengono a mancare quelle che Rimbaud definiva “la fede e la forza sovrumana”, “l’artista diventa preda dei demoni che egli ha scatenato nella sua rivolta, e la sua malattia, il delirio, la follia, il patologico insomma diventano l’unico regno della sua libertà. Egli si trasforma in vittima della sua stessa rivolta [...] In Soutine [...] questa ‘fede’, questa ‘forza sovrumana’, in mezzo alla sregolatezza, sono ancora vive, ma si avverte qualcosa che le minaccia”[16]. Quel qualcosa si riversa prepotentemente sulla tela e mostra la vera essenza dell’anima dell’artista. Egli metabolizza in sé la realtà e la ripropone sogettivandone ogni aspetto. È l’espressione più autentica.

Paesaggio a Cagnes ci mostra tutte le caratteristiche dell’espressione soutiniana, facendo trasparire le emozioni e i vezzi più lampanti e consueti del pittore lituano: “egli dipinge d’istinto”[17] o forse è l’istinto che dipinge per lui. Anche se il tempo trascorso da Soutine a Cagnes sembra essere stato uno dei suoi più felici periodi, la sua necessità di trasmettere una sofferenza ben radicata e interiorizzata - forse anche per riuscire in qualche modo ad esorcizzarla - è evidente essere uno dei suoi più forti bisogni. Neppure il clima del Mediterraneo dunque pare sia riuscito a mitigare quella che più di ogni altra cosa ha regolato e calibrato, durante la sua intera esistenza, tutta l’arte di Soutine: l’ossessione per le sue stesse opere, “nelle quali riversa convulsamente le sue passioni, le sue invettive, i suoi presagi di disfacimento”[18].


[1] Il Nostro infatti, aveva vissuto a Parigi fin dal 1913, anno in cui si era stabilito dopo aver terminato gli studi all’Accademia di Belle Arti di Vilnius, una volta messi faticosamente da parte i soldi per il viaggio.
[2] Marco Vozza, Le forme del visibile – Filosofia e pittura da Cézanne a Bacon, Pendragon, Bologna 1999, p. 240.
[3] Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1988, p. 142.
[4] Ivi.
[5] Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, il Saggiatore, Milano 1993, p.196.
[6] Ibid., p. 191.
[7] Ibid., p. 193.
[8] Ivi.
[9] M. Vozza, Le forme del..., cit., p. 239.
[10] Cfr. Clement Greenberg, The collected essays and criticism, Volume 3 – Affirmations and refusals, 1950-56, The University of Chicago Press, Chicago 1995, p. 75.
[11] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Studi Bompiani, Milano 2003, pp. 326-27.
[12] Ibid., p. 327.
[13] Ivi.
[14] Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna, 1770-1970. L’Arte oltre il Duemila, Sansoni, Milano 2003, p. 117.
[15] M. De Micheli, Le avanguardie artistiche..., cit., p. 141.
[16] Ibid., p. 142.
[17] Ivi.
[18] Ivi.

Nessun commento:

Posta un commento