martedì 20 maggio 2014

Appunti sparsi su un film disperso



Romano Scavolini, ovvero: il cinema contestatore. Contestare il cinema per contestare, di rimando, la società che lo produce. Destrutturare è per Scavolini la parola d’ordine. Fare in modo che il supporto (lo schermo) si eclissi - permettere cioè allo spettatore di immedesimarsi completamente con ciò che viene proiettato su quello stesso supporto - è qualcosa contro cui egli sente una necessità assoluta di lottare. Ma il supporto cinematografico, soprattutto per questa ragione, è per Romano Scavolini (in particolar modo negli anni Sessanta, non a caso è questo il periodo della sua carriera che più ci interessa) un oggetto estremamente indispensabile: è l’unico strumento con il quale poter allontanare dal mondo l’uomo, creando in lui un’immunità all’empatia e al coinvolgimento. Trasformare la sua identità, rendendola possente e libera dai possibili nocivi condizionamenti esterni, diviene così un obbiettivo primario.

Ricordati di Haron 

A mosca Cieca (1966), il suo primo lungometraggio, è un film che concretizza tutto ciò, un film che sposta l’asse della “vera” narrazione in un spazio che non ci è dato conoscere. Il racconto però è qualcosa che nonostante tutto percepiamo, ma è una percezione di tipo “presente-altrove”; una vera e propria entità che si manifesta nello stesso modo mistico di un’immagine ascoltata o di un suono visto. A mosca cieca è l’istante infinito mai risolto.

Che farei senza questo mondo, senza faccia, né domande

Esiste un film? La sua presenza è qualcosa di effettivamente rilevabile dal mondo oppure è la nostra percezione dello stesso a renderlo esistente? Esso esiste perché lo comprendiamo dentro di noi e lo rendiamo qualcosa di presente? Esiste allora un film fuori di noi? Esiste cioè un film lì, dove si trova, senza che ci sia almeno un essere umano a farlo suo? Esisterebbe dunque un film senza questo mondo? Ma soprattutto: esisterei io senza il mondo (il cinema, ma estesamente l’arte) dentro al mondo? Una volta realizzato, un film, è un oggetto rinnovato, che non assomiglia assolutamente a niente di ciò che (non) era prima: somma delle parti diventa parte di un nuovo tutto. O forse il film è già nelle cose di cui è composto e che sono state riprese cinematograficamente per realizzarlo? Senza questo mondo, senza faccia, né domande non farei cinema.

Verso l’amore 

Una cosa è certa: le immagini ci fanno sopravvivere. Una qualsiasi persona che abbia assaporato - anche per una sola volta nella propria vita - un’immagine, non può più vivere senza. Non può più vivere dell’/nell’immagine, perché l’occhio è la proiezione di essa e senza l’occhio non si vive. Perlomeno nel mondo dell’amore per le immagini.

Ascolta

“Stavo leggendo, ho fatto tardi.

- Cosa?

- Sulla matematica: cinque è vittima di sei, ma è carnefice di quattro. Ogni numero - tu puoi formulare qualsiasi cifra - è carnefice del numero che lo precede, ma è vittima di chi lo segue.

- Ma l’uno?

- Il primo è sempre una vittima; tutti i primi. Sono stati sempre vittime, in tutte le cose.

- Ma possiamo diventare i primi?

- Certo, sempre.

- Ma come? Quando?

- Non lo so esattamente. Ma ogni volta che agisci, penso. E poi: quando in un certo senso ti esponi”.

Mio padre

In un film, le figure paterne acquistano spropositatamente un valore simbolico. Sparare a un padre è come parlare allo spettatore attraverso un personaggio del film. Sparare a un padre è tradire un legame. Parlare a uno spettatore da uno schermo, rivolgendosi direttamente a lui, è anch’esso un tradimento. È spezzare la finzione e far dialogare il cinema con ciò che è fuori da esso, ma in un modo estremamente dittatoriale, perché a parlare sarebbe solo il cinema, o meglio ad ascoltare sarebbe solo lo spettatore. Sparare a un padre in un film è come sparare a uno spettatore nel mondo reale, con una sola differenza: il padre, se rapido e se in possesso di un’arma, potrebbe rispondere al fuoco, lo spettatore mai riuscirebbe a farlo.

Amico!

O come sparare ad un amico!

La morte

La morte nel cinema è un concetto difficilmente inquadrabile. Poniamo che io mi riprenda con una cinepresa. Nel momento in cui lo faccio, improvvisamente, muoio. Ciò che vedrò successivamente - una volta sviluppato il film - è la mia morte. Ma che morte è? Una morte trasparente. Sono realmente morto o ho finto di morire? La questione principale è che l’immagine cinematografica nasce assieme alla morte. Anzi: l’immagine cinematografica nasce dal bisogno di eliminare la morte. Una morte filmata - che sia reale o fittizia - non è morte, perché ogni volta che la proietto vive. Vive di morte. Forse dobbiamo mettere da parte per un attimo il cinema e riflettere sulla genesi di tutte le immagini: “La nascita dell’immagine è strettamente connessa alla morte. Ma se l’immagine arcaica scaturisce dalle tombe, è per un rifiuto del nulla e per prolungare la vita […] Ne consegue che più si cancella la morte dalla vita sociale, meno viva è l’immagine, e meno vitale risulta il nostro bisogno d’immagini”[1]. Più morte = più cinema.

Immobile - Essere soli - Essere sconfitti - Mai

La proto-commedia all’italiana dei Settanta è tutta qui: Laura Troschel e Pippo Franco. Non è mai l’inizio - Non è mai la fine.

Fine 

Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 37, dicembre-gennaio 2013.



[1] Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 1999, p. 19.

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