È bene chiarire immediatamente una cosa:
parlare di un ipotetico “vuoto” cinematografico potrebbe anche voler dire
mettersi a riflettere sull’autoreferenzialità del cinema stesso, e cioè sul
fatto che alcune pellicole parlino solo e unicamente di sé o che, comunque sia,
decidano di descrivere qualcosa che non vada mai al di là dei confini oltre i
quali si trova il mondo. Cercare dunque delle tappe per un cinema del genere
potrebbe risultare un’impresa assai ardua: parlarne con libertà - e quindi in
un modo assolutamente non vincolato - è una necessità che, in una riflessione
di questo tipo, risulterebbe ineliminabile. Leggere i vuoti intrinseci del
cinema non è l’impresa che vorrei però affrontare in questa sede, quella che
sento è invece l’urgenza di crearne alcuni di personalissima fattura: il
vuoto inteso in questo caso è quindi quello spazio che resta tra il film e il mondo. Un vuoto divisorio, un vuoto che separa, un vuoto che non viene
percepito ma che riesce a farsi sentire tramite questa assenza che è poi la sua
stessa essenza (dal momento che è pensabile, esso è). Come scriveva Freud: “Il sonno è uno stato nel quale io non
voglio saper nulla del mondo esterno, ho ritirato da esso il mio interesse. Nel
mettermi a dormire mi ritraggo dal mondo esterno e tengo lontani da me i suoi
stimoli. Mi addormento, anche, quando ne sono stanco. Nell’addormentarmi dico
dunque al mondo esterno: lasciami in pace perché voglio dormire” (Sigmund
Freud, Introduzione alla psicanalisi,
in Sigmund Freud, Opere. 1915-1917,
Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 264).
Esistono dei film che sono il nostro
pretesto per metterci a riposo dal mondo. Eccone cinque tra i più importanti di
sempre:
Bianca
di Nanni Moretti
Di un film del genere se ne sente il
bisogno già prima di averlo visto. Un film, tutto sommato, di genere, con
quelle sue incursioni in territori differenti (rispetto a ciò che pensiamo di
vedere), con quelle risoluzioni che attorcigliano i sensi prima ancora che essi
si siano stabilizzati.
C'è niente e tutto, dentro questo
contenitore: c'è, sopra-tutto, la consapevolezza che esistere sia la cosa più
faticosa in assoluto. Come schegge impazzite ci ritroviamo a voler essere gli
Altri, per poter vivere quello che, se fosse dentro noi, sarebbe aprioristicamente
evitato.
E allora ecco una vita, dieci vite,
cento vite che si stropicciano strofinandosi tra loro, che storcono il naso
solo perché non in grado di essere vive ognuna nell'esistenza dell’altra. Poi arriva
anche l'ironia (quella che sostiene il mondo, non certo quella del falso pensiero
o della vera ipocrisia) ma forse non proprio immediatamente, un po’ in là,
spostata nel tempo - ma non nello spazio, in quanto è, nei luoghi, ovunque
presente -, ed è di quelle ironie che trasportano il seme della sensibilità: di
quelle più pure insomma, di quelle più autentiche.
Ma tutto alla fine resta e niente resta,
come il cellulare della polizia (quello dell'ultima sequenza, ma, volendo,
anche quello metaforico della negazione-di-libertà) che ci lascia succubi e
allo stesso tempo fedeli a quella cosa tragica e distruttiva che siamo soliti
chiamare Destino.
Un film che vive a fa (soprav)vivere,
per tutta la sua durata e anche per sempre.
È un sonno ristoratore.
Tokyo
Fist
di Shin'ya Tsukamoto
La violenza della/nella crudeltà, un
pensiero smarrito che si muove rapsodicamente e poi fluttua, come il corpo di
Tsuda che galleggia nel grigiore della fredda Tokyo.
Il respiro dei colpi, la rarefazione
della carne che gonfia e si sgonfia similmente a quella brama di vivere, che,
nello stesso modo, attraverso il cammino dell'esistenza, ci fa veramente
“essere”. Il montaggio serrato e schizofrenico è come l’incubo del reale, che
si riflette in maniera spasmodica negli angoli bui della vita di ciascun vivente.
Incredibile, invece, è la pazienza dei
volti, che attendono di morire e rinascere per mezzo di un masochismo
desiderato ma allo stesso tempo rifiutato ed evitato; prima trovato ed
entusiasticamente sperimentato, poi, di nuovo, mal sopportato e abbandonato, come
l’idea di un nuovo postumanesimo cicatrizzata nella mente di Hizguru, colei che
martirizza al contempo se stessa e tutto il genere femminile.
Tokyo Fist è ciò che siamo e ciò che non
siamo, ma prima di tutto, è quello che vorremmo essere.
È un sonno straziante.
Cul-de-sac
di Roman Polanski
Un cerchio aperto e poi chiuso.
Cul-de-sac, non se ne esce. In verità nemmeno si entra, perché in quel micro
universo tutto funziona secondo logiche particolari, che chiudono il flusso
verso l’esterno e di conseguenza verso il proprio interno.
Personaggi di un astrattismo che rasenta
la realtà (perché questa, in fondo, lo è più dei sogni astratta, o di qualsiasi
altra cosa che abbia il sapore dell’intangibile e dell’immateriale), circoli
che si chiudono non su se stessi ma su altro che ancora non ci è dato sapere.
La luce, poi, non sembra essere
percepibile, nemmeno - e sono la maggior parte - nelle scene diurne, perché a
oscurarla c’è sempre e comunque l’animo corrotto di tutti i personaggi - ma
loro in fondo non ne hanno la minima colpa - che ci appaiono sullo schermo. Il
grottesco, la più grande qualità del film, appare come qualcosa di non ben
definito, come un demone che s’inoltra nelle intercapedini delle immagini e da
esse trae sostentamento.
È il Polanski più allegro/triste di
sempre.
È un sonno perenne.
Viridiana
di Luis
Buñuel
C’è il terrore di assumerli i connotati
di Viridiana, di assomigliarle come è dentro, di metamorfizzarsi unicamente
nella direzione di quel “bigottismo” poche volte nominato all’interno della
pellicola, ma con un’intensità tuttavia abbacinante, con una potenza
incontrollabile.
La povertà, intesa come condizione
sociale, è stracciata in quanto a sua volta vuota di ciò che (forse) è per
l’essere umano la cosa più preziosa: la cultura. Cultura però concepita non in
modo - di nuovo - bigotto o stantio, bensì in una maniera che è quella
dell’avvicinamento vero e sincero all’armonia delle passioni, al tripudio della
purezza dello spirito.
Buñuel ci insegna che ogni cosa deve essere letta secondo le precise
logiche della sensibilità dell’animo umano, e non secondo un edonismo inesistente
e facente parte solo di quel mondo fittizio e ideale che è a noi in verità meno
apparente di quanto in realtà sia.
La chiave funzionante come passepartout
è quella meno facilmente rintracciabile: tutto ciò che vediamo, assaporiamo,
interiorizziamo è talmente concentrato e evanescente che sembra quasi si
ritorni nuovamente a parlare di automatismi psichici.
Sì, è ancora una volta Surrealismo.
È un sonno trasparente.
L’Arpa
Birmana [ビルマの竪琴] di Kon Ichikawa
I movimenti dell’anima e quelli del
corpo, come flussi che si spostano nella stessa direzione ma che non si
incontrano mai. “Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania”.
Mizushima: l’uomo che sacrifica la vita, innalzando lo spirito per dare
sepoltura alle macerie della guerra e del materialismo.
Non c’è scampo su questa terra se non si
è consci del fatto che ciò che non è Pensiero ci porta irrimediabilmente all’autodistruzione.
La pietà opposta alla crudeltà, il
pacifismo più intenso alla violenza più cruda, e la carità come mezzo per
annullare le sofferenze umane. Visioni utopistiche che grazie a Mizushima
riescono, seppur per pochi istanti, a divenire qualcosa di estremamente
concreto.
Un urlo silenzioso che rimbomba, nel
vuoto, irritante e scomposto rumore dell’indifferenza.
È un sonno sofferente.

La cosa più straordinaria di questi film
è la loro incredibile capacità di diversificare la rappresentazione, di non far
mai conformare uno all’altro alcuno degli elementi contenuti in essa. Nella
realtà (nel mondo) oggi tutto rischia di essere percepito su uno stesso livello,
e ogni cosa che si sceglie di rappresentare finirà inevitabilmente con
l’omologarsi alla totalità del sistema di destinazione. Come afferma Jacques
Rancière: “tutto è ormai sullo stesso piano, i grandi e i piccoli, gli eventi
importanti e gli episodi insignificanti, gli uomini e le cose. Tutto è
uguaglianza, ugualmente rappresentabile. Questo ‘ugualmente rappresentabile’ è
la rovina del sistema rappresentativo” (Jacques Rancière, Il destino delle immagini, Pellegrini Editore, Cosenza 2007, p. 169).
C’è però un certo modo di fare cinema - in particolare in certi film fiabeschi,
tra i quali possiamo includere tranquillamente quelli elencati poco più sopra -
nel quale la rappresentazione si fa multifunzionale e polifonica. In questo
tipo di cinema gli elementi messi in scena non sono uno simile all’altro ma, al
contrario, ognuno è ben distinto e contenuto in un suo involucro
caratterizzante. I film realizzati attraverso questo modo di esprimere la
rappresentazione ci tengono lontani dal mondo in quanto ne creano un altro; ed
è un mondo che si crea non tanto grazie all’unione dei loro elementi, ma più
specificamente per mezzo della caratterizzazione delle particolarità delle loro
particelle costituenti. Quando questo tipo di film entra in azione la nostra
realtà non persiste più e il flusso di quelle immagini in movimento trasforma
lentamente ogni cosa in una nebulosa attraverso la quale è terribilmente
complesso riuscire a districarsi; citando Jean Cocteau, si entra in “una specie
di stato sonnambolico che incoraggia la combinazione, il collegamento e la
deformazione del libero flusso di ricordi, finché essi assumono una forma a noi
estranea e diventano un enigma” (Jean Cocteau in Alfredo Leonardi, Occhio mio dio. Il New American Cinema,
CLUEB, Bologna 2006, p. 27). Allora, e solo allora, il cinema diverrà un meraviglioso
sonno.
Pubblicato per la prima volta su Rapporto Confidenziale, numero 39, luglio/agosto 2013